Chissà di che scuola parleremmo se quarant’anni fa un ministero illuminato avesse fatto l’unica cosa sensata da fare per mettere in piedi un sistema di formazione, selezione e reclutamento degli insegnanti decente – e non il ginepraio di norme sconclusionate e crediti da acquisire più o meno a casaccio che abbiamo oggi –, ossia una laurea magistrale abilitante all’insegnamento, senza troppi corsi di teoria e con un lungo tirocinio nelle scuole – poi ci torniamo. Ma il mondo è quel che è, e la scuola, specie quando si tratta di secondaria, è diventata una macchina efficientissima nel far desistere anche gli esseri umani più zelanti, costringendo chi resta a un estenuante contorsionismo burocratico. Stabilire di chi è la colpa, adesso, non conta. Quello che conta è che l’ultima legge (ora che sono arrivati i decreti attuativi e che gli atenei hanno iniziato ad attivarsi possiamo dirlo) sembra confermare il timore dei più pessimisti (che sono molti, e tra i molti noi): finché non troveremo il modo di teletrasportare il ministero in un’isola deserta, e lasciarlo lavorare in pace, lontano da rivendicazioni politiche, pressioni corporative e irresponsabili barriere sindacali, siamo destinati al ginepraio. E ci sono due ottime ragioni per pensarlo.
La prima ha a che vedere con questa brutta abitudine a cambiare le regole per ottenere l’abilitazione a ogni piè sospinto (e cioè più o meno ogni volta che si insedia un nuovo governo), costringendo gli insegnanti a gimkane demoralizzanti. Vale la pena riassumere, a beneficio dei felicemente ignari, gli ultimi vent’anni di riforme. Dal 1990 al 2010 abbiamo avuto le Ssis (Scuole di specializzazione per la secondaria: due anni di lezioni più tirocinio); poi c’è stato il Tfa (Tirocinio formativo attivo, un anno), che però è stato interrotto nel 2017, quando sarebbe dovuto iniziare il Fit (Formazione iniziale e tirocinio: tre anni progressivamente retribuiti di lavoro in classe). Ma, appunto, sarebbe, perché in realtà il Fit non venne mai messo a regime: il governo Conte lo abolì prima che potesse iniziare la prima coorte di aspiranti insegnanti, mantenendo solo l’obbligo di conseguire 24 Cfu “in discipline antropo-psico-pedagogiche e in metodologie e tecnologie didattiche” per accedere ai concorsi.
Negli anni immediatamente successivi c’è stato il guaio Covid da gestire, e per ovvie ragioni si è interrotta la farandola di riforme. Poi però il guaio in qualche modo è passato e quasi subito è arrivata l’occasione ghiottissima del recovery fund europeo, che ha offerto all’Italia la possibilità di ricevere una pioggia di soldi chiedendo in cambio soprattutto quattro cose: una ridefinizione delle procedure per l'immissione in ruolo degli insegnanti, un percorso di formazione iniziale, una carriera definita e un sistema di formazione continua. Così ci si è rimessi al lavoro: prima il ministero presieduto da Bianchi, che ha scritto e promulgato la legge; e poi il ministero dell’Istruzione e del merito di Valditara, che – coinvolgendo poco i sindacati e pochissimo gli atenei – ha lavorato ai decreti attuativi. Il risultato è che a partire da quest’anno per diventare insegnanti bisogna iscriversi al “Percorso 60 Cfu” (un anno di lezioni più tirocinio ed esame finale). E possono iscriversi anche gli studenti all’ultimo anno di magistrale, a patto che ottengano la laurea in tempo per la prova finale.
Ora, è chiaro che questa instabilità non aiuta nessuno, e specialmente non aiuta gli studenti, che ogni anno vedono entrare e uscire dalle scuole un mucchio di insegnanti, a volte bravi e preparati – che è un peccato, perché a questi insegnanti andrebbe offerta una cattedra, uno stipendio certo, magari prima che decidano di fare altro –, a volte molto meno bravi e molto meno preparati – che è di nuovo un peccato, perché questi insegnanti andrebbero incentivati a cambiare, se non professione, almeno il modo di insegnare, e invece finiranno in altre scuole, in altre classi, in modo che il danno sia condiviso più che sanato.
Il ministero – vale la pena ripeterlo – dopo mesi di procrastinazioni e indecisione ha anche indebitamente chiesto agli atenei di attivare questi percorsi molto in fretta per rispettare la scadenza del Pnrr
Ma veniamo alla seconda ragione. Non solo i decreti attuativi sono arrivati con molto ritardo, non solo non verranno stanziati fondi per realizzare questo percorso di formazione iniziale (facendo così pesare il costo interamente sugli aspiranti docenti), ma il ministero – vale la pena ripeterlo – dopo mesi di procrastinazioni e indecisione ha anche indebitamente chiesto agli atenei di attivare questi percorsi molto in fretta per rispettare la scadenza del Pnrr. Ecco, sorvolando sulle belle maniere, questa pessima gestione ha creato e creerà una serie di problemi molto concreti, a cascata: alcuni riguardano l’organizzazione; altri il metodo, e cioè il contenuto dei decreti attuativi e quello che succederà (che sta già succedendo).
Quanto ai problemi organizzativi, che tipo di percorsi potranno organizzare gli atenei con un preavviso pressoché inesistente e in tempi così stretti? Come verrà calibrata l’offerta didattica nelle materie psico-pedagogiche? Come verranno attivati i tirocini? E sulla base di quali caratteristiche bisognerà scegliere le scuole in cui far lavorare i tirocinanti? Ma, soprattutto, come verranno formati gli insegnanti che faranno da tutor agli aspiranti docenti? Il fatto è che non ci sono indicazioni precise in merito a nessuna di queste domande, e ovviamente manca, è mancato, il tempo di chiedere delucidazioni e chiarimenti. Nel migliore dei casi, il rischio è che si sprecheranno corsi di storia della pedagogia o di psicologia generale, che serviranno a rendere gli studenti preparatissimi sulla zona di sviluppo prossimale di Vygotskij e assolutamente incapaci di, poniamo, preparare una lezione, riconoscere un disturbo dell’apprendimento o, più banalmente, gestire una classe di venticinque adolescenti o preadolescenti; nel peggiore, serviranno a confondere le idee, a sprecare mesi che avrebbero potuto essere usati mettendosi alla prova, lavorando in classe – magari in diverse classi e scuole, in contesti difficili, in provincia, in periferia. Soncini l’ha detto benissimo: “Nessuno sa lavorare se non dopo anni che lavora, l’università nel migliore dei casi t’insegna a studiare, a lavorare t’insegna solo lavorare”.
Tutto questo, per altro, senza considerare la facilità con cui quest’enfasi sulla didattica si rovescia in farsa, dato che i decreti attuativi prevedono la possibilità di farsi riconoscere cospicue quantità di crediti già acquisiti, dispensando così di fatto gli aspiranti insegnanti dal frequentare effettivamente i corsi.
Il fatto che il costo di questi percorsi sia interamente a carico di chi sceglie di iscriversi non solo crea ingiustizia tra gli insegnanti, ma è anche largamente ingiustificato
Quanto al metodo, il fatto che il costo di questi percorsi sia interamente a carico di chi sceglie di iscriversi non solo crea ingiustizia tra gli insegnanti stessi (cioè tra chi ha avuto la fortuna di nascere qualche anno prima, e quindi di abilitarsi senza esborsi, e chi deve passare un anno in più a sostenere esami pagandoli di tasca propria – e pagandoli una cifra oscillante tra i due e i tremila euro, che non sono pochi per chi ne riceve poco più di mille alla fine del mese e con quelli deve sbarcare il lunario), ma è anche largamente ingiustificato se si pensa che fino a qui dei 20 miliardi destinati alla scuola presi dal Pnrr ne abbiamo spesi solo il 17%, cioè circa 3 miliardi. Ora, volendo comunque chiedersi le ragioni di una scelta del genere, vengono in mente due possibilità: 1) che sia un tentativo di scoraggiare i più indecisi, quelli per i quali l’insegnamento è una seconda, terza o quarta scelta; 2) che sia un tentativo di ridurre il numero di aspiranti insegnanti tout court (siamo nel mezzo di una crisi demografica, gli studenti diminuiscono ogni anno, le scuole vengono chiuse o accorpate: prima o poi bisognerà chiedersi cosa fare degli insegnanti abilitati che non potranno più insegnare, e senz'altro continuare ad abilitarne altri a caso, senza una vera selezione, non aiuta). E certo che bisogna disincentivare, selezionare, scoraggiare chi vede l’insegnamento come un ripiego, ci mancherebbe; ma bisognerebbe farlo portando nelle scuole i più motivati e preparati, non i ricchi o quelli disperati abbastanza da indebitarsi e pagare nella speranza di ottenere una cattedra – perché si tratta di una speranza, non, come ci si aspetterebbe, di una ragionevole certezza, dato che non è certo che gli atenei si coordineranno con gli uffici scolastici regionali per capire di quanti e quali insegnanti c’è bisogno, e quindi si allungheranno le già lunghissime code di insegnanti che aspettano l'immissione. Altrimenti, il rischio è che i più bravi (quelli che conoscono meglio la loro materia, che vogliono insegnare), decidano di fare altro, di investire meglio tempo e denaro. Per esempio, andando all’estero. Del resto, che far pagare due, tre o anche cinquemila euro non basti a scoraggiare i non meritevoli, lo sappiamo bene, perché ci siamo già passati: ci abbiamo già provato poco più di dieci anni fa, nel 2013, con i Pas (Percorsi abilitanti speciali); e ne stiamo ancora pagando le conseguenze. Perché quello che è successo – conviene ricordarlo, per chi non c’era o era distratto – è che quasi tutti i candidati hanno superato gli esami orali e scritti; anzi, in alcuni atenei proprio tutti i candidati. Non per la preparazione ovviamente (nessun esame che mira seriamente a selezionare i migliori può promuovere tutti); ma per lo zelo, per paura dei ricorsi, e perché è difficile, anche penoso, bocciare chi ha dovuto pagare di tasca propria due o tremila euro, rosicchiando tempo allo studio, al lavoro o alla scuola. Ci si aspetterebbe una diversa considerazione del merito da parte di un ministero che ne ha fatto, tartufescamente, un blasone.
Che fare, dunque? Come accennavamo all’inizio, a noi sembra che la soluzione migliore – che non solo ci metterebbe al livello di altri Paesi europei, che fanno meglio di noi nei test Ocse-Pisa, ma aiuterebbe forse a placare la fregola riformista – sia una laurea magistrale per l’insegnamento, con una forte selezione in ingresso che riguardi le conoscenze disciplinari e un corposo tirocinio da svolgere in scuole diverse, a cui far seguire programmi di tutoraggio dei neoassunti continuativi e rigorosi. E basta.
Quanto all’immediato futuro, forse non è troppo tardi per correggere la direzione, per stanziare almeno fondi adeguati (per esempio, facendo pagare a seconda del reddito), anche per mettere chi deve valutare e selezionare nelle condizioni di farlo bene, cioè bocciando quando è necessario, senza ricatti morali o giuridici. Ma non siamo ottimisti: crediamo che si andrà avanti così, a caso, scombinando tutto ogni cinque o sei anni, facendo le cose tanto per fare, anche quando non ci sono le condizioni. E però, alla fine, bisognerà farsi qualche domanda sull’utilità di questo tourbillon, e anche sul suo prezzo.
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