In un recente articolo Elisabetta Lalumera ha sollevato e discusso la questione del ruolo di filosofe/i nel discorso pubblico in Italia. Muovendo dalle prese di posizione sui temi della gestione della pandemia di alcuni noti filosofi, Lalumera ha sollecitato la necessità di una riflessione sul tema del ruolo della filosofia nel dibattito pubblico di una società liberale e democratica. Vorrei qui provare a raccogliere questa sollecitazione con una riflessione sul tema della divulgazione filosofica. Per introdurre questo argomento sembra necessario discutere brevemente cosa si debba intendere per «filosofia». Come si vedrà più oltre, infatti, una certa idea di «filosofia» è la premessa (più o meno esplicita) di un certo modo di intendere la divulgazione filosofica. Ebbene, chiunque abbia un minimo di familiarità con la letteratura filosofica sa che sono molti gli stili e i metodi di fare filosofia. Nella discussione su come si debba fare filosofia la distinzione più conosciuta (e anche più problematica) è, come noto, quella fra «analitici» e «continentali». Qui non intendo impegnarmi su tali questioni e non voglio argomentare direttamente una tesi su cosa sia davvero la filosofia. Più pragmaticamente muovo da una definizione minimale di cosa significhi fare filosofia.
Questa definizione non si impegna su questioni di stili, metodi e tradizioni, ma guarda alle pratiche, ovvero al modo in cui si fa filosofia oggi. Se guardiamo alle pratiche si deve riconoscere che la filosofia è un sapere specialistico, come altri che caratterizzano l’attuale stato della civilizzazione umana. La filosofia – come, ad esempio, la biologia, la fisica, la psicologia o la sociologia – è un sapere che si realizza in comunità scientifiche che sono per lo più (sebbene non esclusivamente) organizzate in istituzioni (università, enti di ricerca ecc.) e pratiche «ufficiali». La filosofia si insegna in percorsi di formazione riconosciuti dallo stato (insegnamenti scolastici, lauree triennali e magistrali, specializzazioni, dottorati ecc.). La filosofia, in buona sintesi, è un sapere specialistico – al pari di altri, come la fisica o la biologia – esercitato da professionisti che sono tali perché lo esercitano in istituzioni e/o sono riconosciuti da una comunità scientifica di pari. Questa idea della filosofia, come sapere istituzionalizzato e professionalizzato, può forse risultare poco gradevole a chi coltiva l’idea di filosofe/i come sapienti tormentati da interrogativi drammatici sul senso dell’esistenza e, proprio perché rapiti dall’urgenza e dalla profondità di quegli interrogativi, sono ribelli a ogni inquadramento nei ruoli convenzionali della società. Per quanto a suo modo affascinante, questa immagine, tuttavia, non rappresenta quella che è la realtà del fare filosofia oggi: le/i filosofe/i sono persone che hanno, in buona parte, impieghi in luoghi di lavoro in cui la filosofia è un campo di ricerca e una materia di insegnamento.
La filosofia, in buona sintesi, è un sapere specialistico – al pari di altri, come la fisica o la biologia – esercitato da professionisti che sono tali perché lo esercitano in istituzioni e/o sono riconosciuti da una comunità scientifica di pari
Avendo individuato in questo modo la pratica della filosofia, ovvero un sapere a suo modo istituzionalizzato e professionalizzato, si può provare a discutere criticamente una concezione oggi abbastanza diffusa di cosa sia la filosofia stessa. Secondo questa concezione, infatti, la filosofia sarebbe accessibile a tutti e può essere realizzata da chiunque e ovunque. Diversi «divulgatori» filosofici sostengono che la filosofia debba essere ricondotta alle sue presunte origini, ovvero a un pensiero e un dialogo esercitati nelle piazze. Tale idea originaria di filosofia viene perlopiù concepita come un esercizio riflessivo per promuovere la «fioritura» personale. Ebbene, al di là della verità storica di questa rappresentazione delle origini della filosofia (su cui ci sarebbe molto da dire), una tale visione appare del tutto inadeguata perché manca di riconoscere la realtà dell’evoluzione storica del sapere filosofico nel corso del tempo. Fatte le dovute differenze, una tale idea equivale a dire che la geometria per essere vera geometria dovrebbe tornare alle sue origini, ovvero a quel sapere che – come ci insegnano a scuola da bambini – fu inventato dagli agricoltori che avevano bisogno di capire dove finisse il proprio campo e iniziasse quello del vicino. Pensare che la filosofia debba tornare a queste origini (piuttosto mitiche e idealizzate, in verità) significa negare il progresso storico della filosofia come sapere specialistico che – insieme agli altri saperi scientifici, umanistici e sociali – struttura la cultura della nostra civiltà. Fare filosofia richiede istruzione, competenze e professionalità, come ogni altro sapere che dà forma e contribuisce alla nostra civilizzazione. Inoltre, fare filosofia non rende necessariamente chi la fa «felice» o «fiorito». La felicità e la fioritura personale sono cose serie, che si declinano nella privatezza e singolarità delle vite personali e che poco hanno a che fare con le ricette che guru autoproclamatisi vendono ai propri seguaci (o meglio: follower).
Se la filosofia è un sapere specialistico si pone allora il problema della sua divulgazione. La divulgazione della filosofia, come quello di ogni altro sapere che anima la vita di una società democratica, risponde a una duplice esigenza. Da un lato, in democrazia nessun sapere può pretendere di essere esoterico e chiuso in se stesso. Anche per il fatto di essere perlopiù praticata in istituzioni pubbliche (ovvero finanziate dai cittadini e di interesse pubblico), la filosofia – come ogni altro sapere scientifico – ha l’obbligo di «rendere conto» di se stessa alla società. Inoltre (e soprattutto), una democrazia sviluppata si caratterizza per la capacità di rendere accessibile alla cittadinanza metodi e contenuti dei saperi che strutturano quella stessa società e le consentono di avanzare (un'idea riassunta nella nozione di «società della conoscenza»). Detto questo, si pone, quindi, il problema di come divulgare la filosofia.
Il problema della divulgazione della filosofia si inserisce nel più ampio tema della divulgazione scientifica, che qui non si può ovviamente affrontare nel suo complesso. Vorrei invece discutere brevemente un punto che caratterizza specificamente la divulgazione filosofica negli ultimi anni. Da qualche tempo a questa parte, infatti, si è imposto sulla scena pubblica un movimento che, sotto la definizione di «pop-filosofia», ambirebbe, nelle intenzioni dei suoi promotori, a rinnovare i modi di «fare filosofia» e di divulgarla. Secondo Wikipedia la pop-filosofia «consiste principalmente nell’affermare una possibile connessione tra la filosofia e la cultura popolare intesa come l’insieme della produzione culturale di massa del mondo contemporaneo». Pensatrici e pensatori della pop-filosofia i impegnano, quindi, nel mostrare la fertilità filosofica di serie televisive, cartoni animati e film di largo consumo nonché di fenomeni sociali di massa. I pop filosofi discutono quindi della (presunta) filosofia di Harry Potter, di Dr House o di Chiara Ferragni. Che le serie televisive o fenomeni pop come le/gli influencer sollevino questioni filosofiche è fuori di discussione. Si tratta di fenomeni che fanno parte dell’esperienza comune e, siccome la filosofia (per essere buona filosofia) deve interessarsi proprio della vita ordinaria, essi sono parte del materiale empirico di cui la filosofia stessa può occuparsi. Il problema con buona parte della pop-filosofia, tuttavia, è che questi fenomeni smettono di essere un «materiale» per l’analisi e diventano essi stessi metodo e stile di analisi.
Per alcuni pop-filosofi una serie televisiva cessa di essere un "case study" per diventare una fonte primaria della riflessione filosofica. In questo modo, la pop-filosofia si confonde con il proprio oggetto di studio e si assimila ad esso
Detto più chiaramente: per alcuni pop-filosofi una serie televisiva cessa di essere un «case study» per diventare una fonte primaria della riflessione filosofica. In questo modo, la filosofia pop-filosofia si confonde con il proprio oggetto di studio e si assimila ad esso. Anche se in questi tempi postmoderni (o presunti tali) può apparire sgradevole e fuori tempo, è comunque opportuno ribadire una distinzione fra «alto» e «basso», cioè, nel caso specifico, una distinzione fra pratiche riflessive sistematiche e vita ordinaria. La filosofia è una pratica riflessiva in continuità con la vita comune degli esseri umani, ma non si identifica con essa. Le scienze studiano e sistematizzano la realtà con mezzi disponibili a tutti gli esseri umani, ma sono più sofisticate della percezione ordinaria e quotidiana. Esse procedono con metodi di indagine che non sono quelli con cui tutti noi normalmente organizziamo la nostra esperienza nella vita quotidiana. Allo stesso modo la filosofia analizza e riflette sull’esperienza con metodi e pratiche riflessive elaborate e che non coincidono integralmente con l’esperienza ordinaria. Pensare che una serie televisiva sia filosofia (e che guardarla sia fare filosofia) tradisce la natura più profonda della filosofia stessa, confondendo il materiale dell’analisi con il metodo dell’analisi stessa.
Ribadire la professionalizzazione della filosofia e una concezione non pop della divulgazione può apparire a qualcuno una forma di elitarismo poco gradevole. In realtà, l’elitarismo sarebbe piuttosto da rimproverare a quanti considerano la filosofia un esercizio per le piazze o un contenuto tanto banalizzabile da poter essere ridotto a un episodio di Game of Thrones. Sono queste idee, infatti, ad essere il frutto di una visione povera e sterile dello spazio pubblico, secondo la quale i non specialisti potrebbero accedere alla filosofia solo rimanendo confinati nei propri linguaggi e nelle forme espressive che sono loro già conosciute. Al contrario, una divulgazione seria e responsabile muove dal riconoscimento tanto della frammentazione specialistica dei saperi che caratterizza la contemporaneità quanto dal diritto delle/dei cittadine/i delle democrazie di accedere a quei saperi in modo trasparente e intellettualmente onesto. Il compito della divulgazione filosofica (come di ogni altro sapere) è una missione educativa e democratica, che riesca a restituire la ricchezza, e anche la difficoltà, del dibattito filosofico in modi accessibili al grande pubblico. Questo compito non è certo quello di rendere la filosofia l’ennesimo prodotto di facile consumo.
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