Il governo guidato da Matteo Renzi ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica soprattutto per la composizione della maggioranza e per le logiche che hanno condizionato la scelta di ministri e sottosegretari, entrambe nel senso della sostanziale continuità con la storia politica della Prima e della Seconda Repubblica. Non mi paiono questioni centrali, rispetto ai contenuti innovativi del programma di governo e alle possibilità di realizzarlo. Il cambio di premiership si giustifica soprattutto per il consenso pubblico del leader democratico, e per il suo ambizioso progetto di rifondazione della politica nazionale. Il cuore di questo progetto sono ancora le riforme: non solo quelle economiche e sociali, ma anche quelle istituzionali, tra le quali la scrittura di una nuova legge elettorale. Proprio quest’ultima sembrava il primo obiettivo di Matteo Renzi neo segretario del Partito democratico: almeno subito dopo la sentenza della Corte costituzionale, che, qualora il Parlamento continuerà nella sua responsabile inerzia, ci costringerà a votare con una formula proporzionale con voto di preferenza unica. Proprio per evitare questo risultato, l’accordo “Berlusconi-Renzi” aveva portato, in tempi rapidissimi, al varo del cosiddetto Italicum, uno schema elettorale che premia i due maggiori partiti politici degli schieramenti, riduce drasticamente il potere di condizionamento delle forze politiche minori, e disinnesca la minaccia del Movimento 5 Stelle. Una riforma simile si è scontrata contro un muro di veti, provenienti da gruppi organizzati e trasversali, riconducibili, soprattutto, alla minoranza interna al Partito democratico e ai piccoli partiti. L’obiettivo è chiaro: ridurre o far fallire il tentativo di strutturare il sistema politico in senso fortemente bipolare, per ripristinare, dopo la stagione delle larghe intese, una democrazia dell’alternanza finalmente più stabile. La decisione di assumere direttamente la responsabilità di governo anche senza investitura popolare è, da parte di Renzi, frutto della consapevolezza che, in questo modo, quel difficile risultato potrà essere perseguito con maggiori possibilità di essere realizzato.
I problemi, anziché sciogliersi, si sono complicati. Il governo poggia su una coalizione sostanzialmente analoga a quella che sosteneva l’esecutivo di Enrico Letta, nella quale, però, i principali avversari del progetto bipolare sono proprio parte essenziale della maggioranza: oltre, ovviamente, alla minoranza del Partito democratico riconducibile a Gianni Cuperlo, il Nuovo centro destra e la pattuglia dei nostalgici del centrismo. Il programma di governo del premier, dunque, dovrà misurarsi con due diverse maggioranze: quella di governo e quella per l’Italicum. Il “lodo Lauricella” – diretto a subordinare l’applicazione della nuova legge elettorale alla riforma del Senato, non a caso appoggiato da tutti coloro che vogliono contrapporsi all’Italicum – insieme alla volontà di Renzi, implicita nel discorso di insediamento, di non sentirsi affatto impegnato in quella direzione, sono la prova più evidente delle difficoltà che si vanno profilando. Il governo potrà forse districarsi, nelle questioni che attengono il Paese, di fronte alla morsa della crisi economico-finanziaria e all’esigenza di rilanciare la crescita, contando sulla maggioranza politica e su coloro che dall’opposizione ne condivideranno le scelte. Ciò nonostante, si troverà in difficoltà ogni qual volta il premier punterà ad approvare l’accordo con Berlusconi sulla legge elettorale. Un governo potenzialmente con una doppia maggioranza politica, su due direttrici non complementari, come la politica economica e le riforme, in primis quella elettorale, così tanto controversa, quanto potrà resistere? La minoranza della maggioranza politica sarà in grado di condizionare il programma delle riforme istituzionali, facendo rinviare sine die l’approvazione di questa legge elettorale o, magari, riuscendo ad approvarne una diversa e più favorevole ai propri interessi? O, al contrario, il premier riuscirà a imporsi sul tavolo delle riforme, contando sul sostegno di Forza Italia, rischiando però una crisi di governo, che potrebbe portare al voto con la legge imposta dalla Consulta, premiando, così, proprio quelle minoranze delle quali vorrebbe, invece, ridurre il potere di ricatto?
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