Fa bene allo spirito sentire le voci che in questi giorni si levano per ribadire quanto sembrava scontato: la dignità delle donne.
Appelli, articoli, dibattiti a proposito dell’uso del corpo della donna, della sua bellezza e della sua presunta disponibilità ad accontentare i desideri del capo (premier, imprenditore, dirigente televisivo, uomo politico …) si diffondono sulla scena pubblica e rompono un silenzio durato troppo a lungo. C’è stato un periodo in cui la critica al sessismo, machismo, sfruttamento della donna da parte di chi si trova in posizioni di potere sembrava aver vinto, almeno all’estero. Era così diffuso il timore di incorrere nell’accusa di molestie che circolava tra i docenti nei dipartimenti universitari americani il consiglio (ridicolo, ma significativo del clima): “quando entra una studentessa belloccia lascia la porta aperta”.
In Italia – il Paese dei paradossi – ciò che desta scalpore e indignazione è un fatto davvero anomalo. Non è tanto ciò che una serie di ricerche ha più volte e da tempo messo in luce: la scarsa presenza delle donne nei posti di potere – dall’università alle istituzioni politiche e culturali - anche se ormai nella scuola sono loro ad avere i rendimenti più alti e la loro importanza è indiscussa là dove si richiedono competenze, impegno e dedizione. È piuttosto l’affermarsi, in modo sfacciatamente pubblico e quasi esibito, di una nuova via di selezione e “formazione” alla politica. Come se quest’ultima non godesse già di un enorme discredito tra la gente, si è diffusa l’idea che entrare in politica (nelle amministrazioni locali, nelle istituzioni politiche nazionali o europee) sia “the second best” (la seconda scelta) quando l’ingresso nel mondo dello spettacolo - delle veline, meteorine, letterine e letteronze, show girls e starlette - per varie ragioni fallisce.
E’ rivelatore di come sia considerata oggi la politica dai politici che ci governano: nella nostra povera Italia, diventare amministratore, consigliere comunale o regionale, o addirittura parlamentare europeo serve come sostituto ai mancati guadagni e alla mancata visibilità mediatica di donne alla ricerca di un’occasione facile di successo.
Se la “selezionata” ha i suoi vantaggi, nello scambio anche i “selezionatori” devono avere la loro buona convenienza in termini di disponibilità e obbedienza come avviene anche nel caso di uomini selezionati per ragioni che poco hanno a che vedere con la competenza e il merito (e non solo in politica). E tutto ciò alla faccia dell’interesse collettivo, del bene dell’Italia, e di tante belle parole.
Ma vi è un aspetto più preoccupante ancora. È in corso un arretramento culturale, che non è avvenuto d’un tratto e non riguarda solo le donne.
Non è avvenuto d’un tratto perché ci siamo scordati che sono anni che la cultura italiana arretra tranquillamente e senza clamore agli anni ’50 in tema di diritti civili, di concezione della dignità della donna e della famiglia. I giovani non sanno che nel 1970 c’è stata una ragazza, Franca Viola, che nella Sicilia degli anni ‘60 rifiutò il “matrimonio riparatore” (allora era in vigore la legge secondo cui lo stupro veniva cancellato come reato se la vittima acconsentiva al matrimonio )
Oggi c’è chi (si tratta di un italiano) picchia la moglie e sostiene come tesi difensiva di averlo fatto con “finalità educative”. La tesi, respinta dalla Corte di Cassazione (sentenza numero 32843), sostiene che la violenza aveva l’obiettivo di “indurre la compagna ad osservare regole di comportamento ispirate ad un modello ideale di gestione della famiglia”.
Che nel 2009 si possa invocare la violenza sulla donna per “finalità educative” (e passare quasi inosservati sui media) è il segno di un regresso culturale inedito in Europa.
D’altro canto, se è “bieco” l’illuminismo che ai diritti universali ha aperto le porte non ci resta che tornare ai doveri della sudditanza. Non sono solo le donne, ma è l’intero Paese che vede minacciata la propria dignità.
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