Quando incominciò l’epopea di Mani pulite - sottolineiamo epopea perché per più di un anno l’opinione pubblica acclamava il lavoro dei giudici godendosi l’azione “purificatrice” contro politici e magnati corrotti - solo “il manifesto” e qualche altra voce isolata sollevava obiezioni sul metodo del pool: troppo sbrigativo con la carcerazione preventiva, troppo a maglie larghe la rete delle supposte complicità. Per il resto, era tutto un coro di “olé”. Il “verminaio” della corruzione - così veniva descritto - era talmente disgustoso che bisognava in ogni modo estirpare il male alla radice. Poi, all’alba del 1994, prima con prudenza e in seguito con sempre maggior vigore, è incominciata una revisione critica fino a invertire completamente il giudizio su Tangentopoli. La vulgata che si è diffusa è stata quella della “congiura dei giudici”. Magari qualche politico aveva messo le mani nella marmellata, ma la decapitazione della classe politica della Prima Repubblica era stata studiata a tavolino da quei giacobini del pool di Milano. E anche qui, chi aveva plaudito con entusiasmo all’azione dei giudici cambiava, come d’abitudine, casacca, adottando il politicamente corretto della congiura giudiziaria.
Perché ricordare tutto questo? Per il semplice motivo che ci troviamo di fronte a una situazione che ricorda molto da vicino il 1992. Ogni giorno c’è un'incriminazione e cade una testa. Ogni giorno emergono nuovi episodi e si allarga la voragine di malversazione e corruzione. Semmai c’è da segnalare che abbiamo realizzato una vera devolution del malaffare. Mentre nel 1992 erano le classi dirigenti nazionali, più qualche appendice periferica, a essere inquisite, ora sono gli amministratori locali a essere investiti. Anche in questi giorni, come allora, il consenso è universale e trasversale e, anche oggi come allora, il bersaglio grosso è costituito dal centrodestra (Penati e Lusi sono comunque dei solidi comprimari).
Queste vicende rivelano però un assetto inedito: il mutato rapporto centro-periferia nei partiti. A livello locale, e soprattutto nelle amministrazioni regionali, gli eletti e, in subordine, i dirigenti locali si sono autonomizzati rispetto alla dirigenza nazionale. Gestiscono gli affari, politici e non, in piena autonomia: non sono i referenti locali di correnti o cordate, non devono riportare ai loro majores nazionali i benefit politici, in termini di estensione e fidelizzazione del network di relazioni, ed economici. Agiscono in prima persona, direttamente, e trattengono per loro stessi i vantaggi che ricavano dalla loro posizione politica. In questa autonomizzazione della corruttela e della malversazione gioca quindi un allentamento del rapporto (e anche del controllo) col vertice: sembra in atto uno scambio per cui, in loco, dirigenti e amministratori hanno mano libera purché portino voti. Non c’è più nemmeno la foglia di fico del “rubare per il partito”. La cultura dell’individualizzazione, spinta al parossismo in questi anni, ha diffuso un atteggiamento acquisitivo e particulare su ogni piano, e quindi anche nella sfera politica.
In sostanza, conquista di spazi di indipendenza delle élite locali, abbondanti risorse a disposizione, lontananza/disinteresse del centro e cultura acquisitiva-individualista sono tutti fattori che hanno “facilitato” l’estensione della corruzione e della malversazione. Tutti ora ne sono indignati. Per quanto?
Riproduzione riservata