La piattaforma programmatica di Alternative für Deutschland, approvata a Stoccarda nel corso del V Congresso federale dal 30 aprile al 1 maggio 2016, rappresenta un grande passo in avanti per il partito nato appena tre anni fa. Nel 2013, pochi mesi dopo la fondazione, il programma presentato per le elezioni federali era di appena quattro pagine e, quasi interamente, centrato sulla necessità di concludere l’esperienza della moneta unica e di reintrodurre il marco. Ora la situazione è ben diversa.
Alternative für Deutschland ha stravinto nel 2014, entrando nel Parlamento europeo e nei Länder dove si era presentata. Nel febbraio 2015 conquista anche seggi nelle città-Stato di Brema e Amburgo, all’ovest. Non sembra risentire nemmeno della «spaccatura» che un anno fa ha spodestato il portavoce, Bernd Lucke, tra i fondatori del partito, e ha registrato, con i nuovi vertici, una nuova, più profonda svolta a destra e una radicale ostilità alle scelte della cancelliera sulla cosiddetta crisi dei rifugiati.
L’ultimo documento approvato contiene analisi molto contestate: ad esempio, l’affermazione che «l’Islam non appartiene alla Germania» e, cioè, alla sua cultura cristiana. I musulmani sarebbero «ospiti» («Afd considera un grande pericolo per il nostro Stato, per la nostra società e per i nostri valori la presenza di un crescente numero di musulmani»), ma non parte della cultura tedesca.
Si tratta, tuttavia, di un programma corposo che affronta molti altri aspetti: ovviamente l’Europa (si cita l’Europa delle Patrie e la necessità di convocare un referendum sull’euro, anche perché «al più tardi con i trattati di Schengen, Maastricht e Lisbona, la sovranità popolare come fondamento del nostro Stato si è rivelata una finzione»), la scuola e l’università, politiche fiscali, energetiche. Meno citata dai media rispetto alle frasi sull’Islam, ma molto importante, è ad esempio la nuova analisi sul salario minimo (Mindestlohn), che modifica l’originaria posizione del partito. Se, infatti, negli anni precedenti, il partito era decisamente contrario (si scorgeva uno strumento «straniero» nell’economia sociale tedesca), adesso invece se ne valuta positivamente l’applicazione nei settori di bassi salari (correggendo la posizione del lavoratore nei confronti del datore di lavoro), chiedendo di mantenerlo in vigore.
Questa svolta non deve sorprendere e sottolinea la lucidità dell’attuale gruppo dirigente, che non ha alcuna remora di radicalizzare le proprie politiche sull’immigrazione, camuffando al contempo i tratti di «estremismo economico» (in senso neoliberista) che avevano caratterizzato i primi anni: con tutta evidenza fa parte di una precisa strategia finalizzata ad assicurare il voto di precisi gruppi sociali, scontenti delle politiche della Spd e, in particolare, della Linke. L’analisi dei flussi elettorali ha chiarito, infatti, la trasversalità del bacino elettorale di Afd. È dunque ragionevole che, a poco meno di un anno dalle elezioni federali, l’intento dei vertici del partito sia soprattutto quello di fidelizzare questi voti.
Se il partito dovesse continuare a confermare questi risultati elettorali, è facile immaginare che entrerà al Bundestag alle prossime elezioni federali (non ancora fissate ma previste tra la fine di agosto e i primi di ottobre 2017). La presenza di Afd al Bundestag non va sottovalutata, perché si tratta di una fase particolarmente delicata per il sistema politico tedesco.
Al momento, i principali esponenti dei partiti considerano Afd incapace di poter sostenere la responsabilità del governo: Angela Merkel e gran parte della Cdu sono del tutto contrari a un’alleanza, la Csu sembra più attenta agli slogan populisti del nuovo partito, ma è probabile che si tratti solo di un modo per intercettare (o trattenere) elettori in Baviera. L’intero campo progressista, dai Grünen alla Spd e alla Linke, considerano Afd una minaccia per la democrazia tedesca.
Tuttavia il problema è serio: al di là di sondaggi forse troppo ottimisti, è certo che il «peso» elettorale di Afd è notevole. Che fare, dunque, di questa nuova forza politica?
Costruire una sorta di «cordone sanitario» attorno ad Afd è una scelta a suo modo pericolosa: rende, nei fatti, quasi inevitabile una riedizione della grande coalizione (cioè l’accordo di Cdu, Csu e Spd). Ipotesi che sembra essere perseguita dal vicecancelliere Gabriel (Spd), magari modificando la guida, che dovrebbe passare da un conservatore a un socialista (scenario mai realizzato in Germania: le tre grandi coalizioni sin qui sperimentate sono sempre state a guida conservatrice).
In effetti, l’Union di Cdu e Csu sembra avere uno spettro più ampio di possibilità per restare al governo. Nell’ipotesi di un «bando» verso Afd, ai dirigenti conservatori resterebbero almeno tre possibilità: se i liberali della Fdp tornassero al Bundestag ‒ e ad oggi la cosa non pare impossibile ‒ potrebbe profilarsi una nuova coalizione giallo-nera, oppure, sulla base di quanto accaduto proprio di recente nel Baden-Württemberg, una coalizione con i Grünen, che già nel 2014 dopo le elezioni tennero colloqui proprio con l’Union, rimasti però infruttuosi. Oppure una nuova coalizione a tre (Union, Fdp e Grünen), nel caso in cui le ipotesi a due fossero prive della maggioranza parlamentare. Infine, terza ipotesi, una riedizione della grande coalizione – nuovamente a guida conservatrice.
L’ipotesi che la semplice presenza di Afd limiti la possibilità per il campo progressista di guidare il governo in Germania è molto concreta. Si tratterebbe, quindi, di una conventio ad excludendum che avrebbe due bersagli precisi, uno espresso e uno tacito.
Quello espresso sarebbe proprio Afd, incapace di stare al governo e quindi da condannare all’inutilità al Bundestag, per quanto il diritto di tribuna e di opposizione, se esercitato con intelligenza, si rivela un’arma non da poco.
Quello tacito sarebbe la riproposizione del motto adenaueriano «keine Experimente» («no agli esperimenti»), obbligando la dirigenza socialdemocratica a una nuova grande coalizione e annacquando ulteriormente la capacità di opposizione della Linke. Il campo progressista sarebbe a quel punto del tutto disarticolato e a rischio stesso per la sua stessa sopravvivenza: dopo la «normalizzazione» dei Grünen, una crisi della Spd, anche in termini di consensi elettorali fino a mettere in discussione la sua stessa natura di partito di massa, e l’emorragia di voti della Linke (che pure potrebbe giovarsi di qualche punto percentuale in più in uscita dalla Spd, in un mortale gioco «a somma zero») sarebbe davvero complicato immaginare – nel breve come nel medio periodo – una svolta del sistema tedesco, come quella promossa da Willy Brandt alla fine anni Sessanta.
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