Se non c’è democrazia nel Partito socialdemocratico tedesco, che cerca di introdurre la democrazia nel sistema politico della Germania imperiale e lotta per ottenerla, la democrazia non potrà mai affermarsi. Al contrario, si imporrà, scrisse memorabilmente Robert Michels, «la legge ferrea dell’oligarchia»La sociologia del partito politico, trad. it. Il Mulino, 1966: questa edizione contiene una splendida, illuminante e insuperata introduzione di Juan Linz, Michels e il suo contributo alla sociologia politica, pp. vii-cxix).
L’apparentemente inevitabile concentrazione di potere nelle mani di coloro che controllano le informazioni, le comunicazioni, la distribuzione delle cariche e le fonti di finanziamento delle associazioni impedisce la comparsa della democrazia nel sistema politico a tutto vantaggio delle oligarchie, anche di partito, nei partiti. In sostanza si presenta il dilemma se sia meglio costruire un’arma organizzativa (copyright Philip Selznick 1960) per vincere le elezioni in modo da avere l’opportunità di tradurre i programmi del partito in politiche pubbliche che soddisfino le preferenze e le necessità degli elettori, oppure dare voce agli iscritti, agli attivisti, spesso carrieristi, talvolta ideologicamente irrigiditi, e lasciarsi guidare dalle loro maggioranze, spesso mutevoli quali piume al vento, che potrebbero essere poco rappresentative degli elettori e incapaci di conseguire vittorie elettorali. Un po’ dovunque questo dilemma, spesso non così limpidamente visibile, si presenta ai dirigenti dei partiti pressati dal desiderio di vincere le elezioni, ma obbligati a tenere conto delle preferenze e delle opinioni, se non degli iscritti, quantomeno dei militanti, ai quali debbono le loro cariche e senza i quali l’organizzazione partitica non potrebbe funzionare.
Che cosa vuole comunicare agli italiani l’inciso «con metodo democratico» dell’articolo 49 della Costituzione riferito alla concorrenza fra partiti per «determinare la politica nazionale»? Michels si preoccupava giustamente dell’emergere di un’oligarchia di/nel partito che si sarebbe dedicata prevalentemente al perseguimento degli obiettivi di avanzamento personale e di carriera dei dirigenti a scapito delle preferenze degli iscritti. Però, se (anche) così facendo, quell’oligarchia di funzionari avesse condotto il partito a vittoria elettorale dopo vittoria elettorale e conquistato il potere di governare, avrebbe/avremmo comunque dovuto lamentare la mancanza o le limitazioni di democrazia all’interno del partito? Giunto al governo quel partito ha la grande opportunità di produrre politiche pubbliche che migliorano la vita del suo elettorato, forse di tutti gli elettori e, di conseguenza, anche dei suoi iscritti. È accettabile sacrificare un po’/molta/quanta democrazia interna all’efficienza politica? Oppure tutti i partiti dovrebbero considerare la democrazia al loro interno non soltanto un mezzo, ma, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, un fine in se stesso?
Leggendo criticamente Michels e andando al cuore della sua tesi, Giovanni Sartori (Democrazia, burocrazia e oligarchia nei partiti, «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 3/1960, pp. 119-136) ha sostenuto che i partiti hanno la facoltà di darsi qualsiasi modalità organizzativa preferiscano. È presumibile e auspicabile che coloro che si iscrivono a un partito ne conoscano almeno in una certa misura le modalità di funzionamento e, con la loro iscrizione, le accettino. Potranno, poi, nel corso del tempo, anche cambiare idea, passando, come ha acutissimamente messo in rilievo Albert O.Hirschman (Lealtà, defezione, protesta, trad. it. Bompiani, 1982), dalla lealtà, il sostegno ai dirigenti e alle loro attività, alla protesta (voice), vale a dire la critica dei comportamenti, fino alla defezione (exit), ossia all’abbandono del partito. Protesta e defezione sono i comportamenti più probabili quando il partito perde voti, e di conseguenza subisce sconfitte elettorali a presumibile causa della linea politica applicata dai dirigenti e della candidature da loro prescelte. Allora, forse soltanto allora, gli iscritti accuseranno i dirigenti di scarsa democrazia interna, per l’appunto, avendo formulato un brutto programma, selezionato malamente le candidature, avendo condotto una inadeguata campagna elettorale.
[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 6/19, pp. 908-915, è acquistabile qui]
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