Baracoa è l’ombelico di Cuba. Un ombelico non centrato, abbarbicato alle propaggini di un profondo Est. Ma è da qui che l’isola ha preso vita, tratto la sua origine non geologica, germinato una radice non culturale: Baracoa è la culla di Cuba semplicemente perché a Cuba non esiste luogo più ancestrale. La natura stringe con selvaggia generosità una lingua di case, affiancate nelle loro architetture di legno pitturato con sgargianti colori, come tante niñas messe in fila. I baracoensi sono mulatti o neri, figli moderni degli antichi Tainos; le donne indossano vestiti rosso fuoco e turchese, magliettine luminescenti di strass, pantaloni da cui pendono armamentari di fibbie. Anch’io ho comprato qualche vestito a Baracoa. E non è stato facile. Le tiendas, i negozi dove puoi acquistare un po’ di tutto, in realtà non vendono quasi niente. Sono grandi stanze vuote occupate da scaffali sguarniti e impolverati. La merce non costa poco, anche se è di scadente qualità. I cubani vanno ghiotti della roba particular, marche buone trafficate privatamente da chi riesce a vendere e a comprare chissà come, sognando la Florida dall’altra parte del mare, raggiunta troppe e male volte con mezzi di fortuna.

A Baracoa il tempo non scorre. I suoni sono quelli che non abbiamo mai conosciuto. Anche le pittoresche vetture, miracolate da prodigiosi meccanici, forse orologiai in grado di fermare il tempo, sono persino più rare. Il mezzo di trasporto prediletto è il risciò, o l’asino, la bicicletta e la carrozza a un solo cavallo. I bambini camminano in strada, ignari dei pericoli dei nostri figli. Indossano la stessa uniforme, camicina bianca, pantaloni o gonnella cachi, che li porta a scuola dalle 7:30 alle 17. Camminano per chilometri, spuntano alla spicciolata da sentieri scoscesi incisi nei fianchi della giungla, si assembrano in piccole frotte sulle spiagge e portano zaini inutili sulle spalle: i libri sono un lusso, non c’è niente di più prezioso delle dispense  fotocopiate, strette al petto con presa diligente. I bambini studiano tutti, e con metodo. La scuola è la vita. È lì che imparano anche lo sport, che praticano ogni giorno, e la musica. A scuola mangiano e sognano. Sanno che devono ottenere il massimo della puntuación, perché se non sei bravo sei tagliato fuori. Le scuole professionali accolgono i secondi arrivati: ai primi spetta il diritto di un futuro universitario. È il pensiero con cui Nailen si sveglia alle sei meno dieci con la forza dei suoi tredici anni, è il pensiero con cui tutte le sere Iván e Zoila la addormentano, loro che sono  rimasti per sempre a Baracoa mentre il figlio grande è al terzo anno di Ingegneria chimica a Santiago de Cuba.

Da Baracoa non ci si muove spesso. A Baracoa si resta. Fino a un pugno d’anni fa, l’unica via era d’acqua, e ora che c’è un aeroporto con qualche rado volo e un paio di recenti righe tracciate sulle mappe sino a Holguín e Santiago, la strada è tuttavia ancora lunga per sentirsi qui come a Cuba. Baracoa è un ecosistema a sé. Dove la maggior parte degli abitanti non è mai uscita dal giardino di palme reali e di jagrumas che si estende a perdita d’occhio, incastonato tra le montagne. Ogni passo, gesto, fronda qui ha il suo suono, accolto nel silenzio, gustato fino a spegnersi in una quiete senza rumore. Anche il gallo interpreta un assolo tutto suo e ulula a una falce di luna orizzontale sin dalle tre del mattino. La pioggia scandisce il metronomo con solerzia quotidiana, picchiettando leggera prima dell’alba e nel tardo pomeriggio, mentre la musica zampilla ovunque: strilla dalle case spalancate, con o senza porte, romba all’accensione delle macchine, si balla la sera nella poco più che turistica Casa de la Trova, nella Terraza, per chi non ne abbia abbastanza di reggaetón, e nel ritrovo autentico del Patio, dove mi sono lasciata vivere tra gli equilibrismi timbrici dei Maravilla Yunqueña, nell’impasto perfettamente amalgamato di güiro e claves, spolverizzato dalla ritmica sgranata delle maracas, su cui far risaltare il dolce controcanto di due tenori e il granello di sale di un basso. Il monte Yunque è il tesoro di quest’isola nell’isola. Una divinità che dall’alto del Parque Humboldt tutto vede e che si raggiunge dopo una ripida camminata, guadando un fiume, attraversando i grumi di colore di una giungla sorretta da fusti di mango, cocco, cacao e caffé, immergendosi fino alle ginocchia in un cremoso fango rosso, per raggiungere una cima insolita, incredibilmente appuntita. Una sommità da condividere con pochi, dove in trecentosessanta gradi di sguardo l’occhio si perde sulla cintura di monti più gentili, sorvola foreste sterminate, abbracciando per tre quarti il mare.

Pienamente rivelatrice della verde estasi cubana, l’ascesa allo Yunque è complice anche di un’altra scoperta, segreta, antica qual è la musica di questa terra. Che nasce dai suoi uccelli come il Tocororo Guatini, dal mantello nazionale bianco rosso e blu, come il lento e timido Guacaica, dagli occhi mendaci quasi ciechi, o dall’esuberante picchio tropicale, il Carpintero Jabao. Ascoltando il fraseggio sincopato del suo becco aguzzo, il sospetto diviene certezza: l’isola ha imparato a danzare al ritmo del suo canto.