La reputazione dei partiti è in calo da tempo, e la confusa rielezione di Sergio Mattarella ha contribuito a peggiorarla. Eppure, benché in crisi di legittimazione e progressivamente svuotati di contenuti socio-civili e di sapere sociale, i partiti rimangono un’articolazione fondamentale dello Stato politico, esercitando «il potere statale»: scelgono il presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica, i ministri, i parlamentari, i consiglieri regionali e comunali e nominano numerosissime postazioni nell’amministrazione pubblica, nell’economia, nel sistema bancario…

Tra il 1943 e il 1948 i partiti del Cln hanno progettato e costruito, con il pensiero politico e la lotta armata della Resistenza, l’edificio istituzionale della Repubblica descritto e prescritto nella Costituzione del 1948. La rappresentanza è costituita da due Camere legislative, elette con sistemi elettorali diversi. Il governo è presieduto da un presidente del Consiglio primus inter pares tra i ministri, tutti proposti, sotto dettatura dei partiti, al presidente della Repubblica, cui spetta la loro nomina.

I partiti, architrave nascosta dell’intero sistema, pur detenendo tale potere statale, sono in realtà associazioni private non regolate. Lo fece notare, tra i pochi, Piero Calamandrei, in occasione della discussione dell’art. 49 della Costituzione: «…una democrazia non può esser tale, se non sono democratici anche i partiti in cui si formano i programmi e in cui si scelgono gli uomini che poi vengono esteriormente eletti coi sistemi democratici».

Dunque, sarebbe stata necessaria una legge che stabilisse i parametri di democrazia da rispettare da parte di ogni partito. Fu Togliatti per primo a opporvisi: da allora una legge che regoli la vita dei partiti non è mai stata approvata, nonostante le incursioni della magistratura, dall’epoca di Mani Pulite fino a oggi sullo Statuto del M5S.

Le ragioni che portarono i padri costituenti a optare per partiti forti e «governo debole» avevano a che vedere con i tempi di Guerra fredda e con la paura di ciascuna parte di perdere le fatali elezioni del 1948. In questo schema il Parlamento, che crea e abbatte i governi, è controllato dai partiti e dalle loro correnti, così che il mutare degli equilibri nei e tra i partiti si riflette immediatamente sulle azioni e sull’esistenza stessa di ogni governo. Dal 1948 a oggi il Parlamento ha generato un governo ogni tredici mesi, praticando quell’arte che Piero Craveri ha definito del «non-governo».

La società e l’economia ne sono state profondamente segnate. Gli interessi privati si sono organizzati in corporazioni/lobby (Confindustria, sindacati, pubblica amministrazione, tecnocrazia pubblica, sistema bancario, Cementieri e costruttori edili, sport, ordini professionali, cacciatori ecc.). La stessa magistratura, uno dei tre poteri dello Stato politico e pezzo dello Stato amministrativo, si è trasformata in corporazione civile-professionale. D’altra parte le corporazioni/lobby, soggetti pure non regolati da alcuna legge, confliggono, negoziano e premono sui partiti, interessati ciascuno a difendere la propria lobby/constituency elettorale.

I costi di queste operazioni vengono poi scaricati sulla finanza pubblica. In occasione della recente Legge finanziaria i partiti hanno presentato oltre 6 mila emendamenti. Ma non è tutto. L’esposizione dei partiti agli interessi particolari li ha resi poco sensibili alle domande universali dei cittadini di adeguamento dei diritti all’evoluzione della società.  Spetta così ai referendum, alla magistratura e alla stessa Corte costituzionale svolgere una funzione suppletiva, come ad esempio nel recente caso della «morte assistita».

Se la politica funziona male, la società va peggio e peggiorano anche le prestazioni della politica: è la spirale del declino

Se la politica funziona male, la società va peggio e peggiorano anche le prestazioni della politica: è la spirale del declino. Segnali di disagio sono arrivati dalla società civile già alla fine degli anni Sessanta, tramite i movimenti che a partire dal 1968 e lungo tutti gli anni Settanta e Ottanta hanno fatto sentire la loro voce, ma non erano in grado di mettere in discussione la struttura del sistema politico-istituzionale.

I partiti hanno cercato pigramente di dare una risposta: la posta in gioco era diventata la stabilità dei governi, la governabilità. Nel 1983 (fino al 1985) s’insedia la prima Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, la Commissione Bozzi. Il 9 novembre 1989 crolla il Muro, le cui macerie cadono sul sistema politico, unico caso in Europa. La domanda di cambiamento si fa più pressante, sostenuta da nuovi movimenti: il referendismo, il leghismo, il berlusconismo, il giustizialismo che promana da Mani Pulite. La Commissione De Mita-Iotti si riunisce tra il 1992 e il 1994. Dopo la vittoria di Berlusconi, nel 1994, viene istituito il Comitato Speroni. Nel 1997-98 nasce la Commissione bicamerale presieduta da D’Alema. Tutti questi tentativi falliscono. Nel 2001 viene approvato un referendum che riformula, ma in modo insoddisfacente, il Titolo V della Costituzione. La Lega presenta poi un Disegno di legge costituzionale, bocciato nel referendum del 2006. L’onorevole Violante elabora poi una nuova Bozza, che è archiviata a causa della fine precoce della legislatura 2006-2008.

Intanto, il movimento antipartitico e antipolitico riprendeva forza e nel 2005 si coagulava attorno al blog di Beppe Grillo. Nasce così il M5Stelle, che esprime la piattaforma ideologica più radicale fino ad allora apparsa, perché predica l’abolizione stessa della rappresentanza parlamentare e del governo politico, e dunque anche dell’intermediazione partitica.

A partire dal 2012 entra in scena un nuovo «generale»: è il debito pubblico in rischio di default. Il Parlamento non riesce a dar vita a un governo capace di dare fiducia ai creditori internazionali e il presidente Napolitano impone il governo Monti. Nel 2016 il Parlamento approva a maggioranza assoluta il testo di legge di riforma costituzionale Renzi-Boschi, bocciato dal referendum del 4 dicembre 2016. Gli esiti delle elezioni del 2018 complicano le cose. Il Parlamento dà vita a governi instabili, nati da coalizioni improbabili, i quali, di fronte alla nuova e più dura crisi determinata dalla pandemia Covid, inducono il presidente Mattarella a imporre il governo Draghi. La rielezione del presidente Mattarella è l’ultima ed estrema manifestazione dell’impotenza dei partiti e della paralisi dell’istituzione-governo.

La storia fin qui molto sinteticamente riassunta mostra che i partiti non vogliono un cambiamento delle regole del gioco. C’è tra di loro chi propone la soluzione-scorciatoia della elezione diretta del presidente della Repubblica, ma senza un riequilibrio dei poteri essa rischia di generare conflitti tra i poteri, tentazioni autoritarie e movimenti populisti. C’è chi propone il ritorno al proporzionale vigente fino al 1993, che toglierebbe completamente agli elettori quel residuo di facoltà di scegliere indirettamente chi governerà, consentito parzialmente dall’attuale sistema elettorale, e riporterebbe all’instabilità totale.

Serve una democrazia più robusta, capace di rappresentare fedelmente ogni voce, ogni interesse, ogni pulsione, di scegliere stabilmente un indirizzo e di governare, ricomponendo gli interessi particolari in vista del bene comune

A nostro giudizio serve invece un assetto istituzionale nel quale la gamba del governo sia lunga quanto quella della rappresentanza. Serve una democrazia più robusta capace di governare e decidere, di rappresentare fedelmente ogni voce, ogni interesse, ogni pulsione, di scegliere stabilmente un indirizzo e di governare, ricomponendo gli interessi particolari in vista del bene comune. Non è, dunque, primariamente una questione di sistema elettorale, dalla cui modifica anche in senso maggioritario non può derivare automaticamente una maggiore capacità e stabilità dei governi, come l’esperienza ha dimostrato. Occorre in primo luogo un nuovo sistema di istituzioni democratiche. Il sistema elettorale legittima democraticamente le istituzioni, non le crea. All’interno di questo nuovo assetto i partiti possono ricostruire un proprio ruolo sociale, culturale e politico.

Il modello della V Repubblica francese, succeduta alla IV Repubblica che aveva visto susseguirsi tra il 1946 e il 1958 ben ventidue governi, parve essere l’approdo della Commissione bicamerale D’Alema. Fu bocciato, principalmente da Berlusconi perché temeva che l’immediata adozione di quel modello semi-presidenziale avrebbe incoronato Romano Prodi capo dello Stato. Non era il solo a temerlo. La tattica prevalse sulla strategia. Nelle condizioni attuali di regime semi-presidenziale di fatto, che potrebbe prolungarsi oltre le elezioni del 2023, a noi pare che l’elaborazione della Commissione bicamerale sia da riprendere seriamente in mano.

Il modello francese prevede che gli elettori votino direttamente il presidente della Repubblica con un sistema elettorale maggioritario a due turni; se al primo turno un candidato non ottiene la maggioranza assoluta, i primi due arrivati si disputano la presidenza in un secondo turno. Terminata la tornata presidenziale, gli elettori votano i membri dell’Assemblea nazionale (il Senato è oggetto di elezione di secondo grado), sempre con un sistema maggioritario uninominale a due turni. Al secondo turno accedono i candidati che superino lo sbarramento del 12,5% degli iscritti alle liste elettorali. Il presidente della Repubblica nomina il capo del governo, che deve ottenere la maggioranza del Parlamento e può essere cambiato a seconda delle maggioranze parlamentari; nomina e revoca i ministri, su proposta del capo del governo; negozia e ratifica i trattati internazionali; è comandante delle forze armate; può prendere iniziative per la revisione della Costituzione, su proposta del capo del governo; può sciogliere il Parlamento. La magistratura è autonoma ed è retta da un consiglio superiore della magistratura.

I partiti vedono consistentemente ridotto il loro potere istituzionale di scegliere il presidente della Repubblica e il governo, ma non per questo sono destinati alla scomparsa. Devono e possono sviluppare un radicamento socio-culturale nella società civile e preparare, educare, addestrare il personale politico da proporre alle scelte degli elettori. Il modello semi-presidenziale non mette certo al riparo dalle turbolenze socio-economiche e dai disordini globali, offre però un quadro di cinque anni di stabilità politico-istituzionale, dentro il quale gli individui, le famiglie, le comunità, le imprese, l’amministrazione possono progettare il futuro prossimo.

Insorge, a conclusione di questi nostri ragionamenti, un quesito che può sorgere anche a chi s’interroga sul futuro della democrazia italiana: se i partiti sono pigri o scettici rispetto alle necessarie riforme istituzionali, a chi vi rivolgete? La nostra proposta si rivolge a tutte le «persone di buona volontà» nella società civile e nella politica, perché cresca un movimento di presa di coscienza e di assunzione di responsabilità. Tra un anno si vota. Vorremmo far trovare sul tavolo del futuro Parlamento qualche idea per un tempo costituente che la collocazione internazionale dell’Italia, in Europa e nel mondo rende necessario.