Il 23 ottobre 2011, nel corso di una conferenza stampa, la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy si guardano e sogghignano quando i giornalisti chiedono se i due leader si fidino delle riforme promesse dall’Italia guidata da Silvio Berlusconi. Il 18 maggio 2019 Matteo Salvini, leader del primo partito italiano, la Lega, celebra a Milano l’evento più importante della sua infinita campagna elettorale per le elezioni europee. Al suo fianco ci sono tutti i leader euro-critici e sovranisti delle destre europee, da Marine Le Pen a Geert Wilders.
Quasi un decennio separa queste due scene, inequivocabili rappresentazioni dell’isolamento dell’Italia in Europa. Una marginalità ieri mal sopportata e sempre negata, oggi invece rivendicata con orgoglio. In mezzo ci sono lunghi anni di scelte dettate da quella che Tommaso Padoa-Schioppa chiamava «veduta corta» e che nel campo della politica europea dell’Italia si riassumono nell’aver individuato un’unica priorità: ottenere il permesso di fare più deficit di quello consentito dalle regole (e dai mercati), sacrificando a questa esigenza tutto il resto.
Nel 2011, nel pieno della crisi di credibilità dell’euro e sotto la minaccia di un possibile default sul debito sovrano, l’Italia sembrava al punto più basso della sua rilevanza europea. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi continuava a raccontare, grazie a media italiani di sua proprietà o compiacenti, di essere l’indispensabile punto di equilibrio di ogni negoziato europeo e di vantare relazioni privilegiate con tutti i leader rilevanti, dal presidente americano alla cancelliera tedesca. Come è poi risultato evidente, non era esattamente così. Ma quella pur drammatica perdita di credibilità del Paese era, al netto del problema strutturale del debito pubblico, tutta legata alla persona che ne rappresentava il governo. Il problema, insomma, era Berlusconi. Non l’Italia.
In poche settimane, il governo tecnico guidato da Mario Monti riuscì a restituire quel minimo di credibilità finanziaria indispensabile per evitare l’esplosione dei costi di indebitamento e soprattutto fu in grado di riportare l’Italia al suo tradizionale ruolo europeo. Un passo dietro Francia e Germania, ma potenziale partner di entrambe, per spostare verso Parigi o verso Berlino il pendolo del processo di integrazione.
[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 3/19, pp. 381-387, è acquistabile qui]
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