Il conflitto politico e istituzionale in atto negli Stati Uniti è vecchissimo e nuovissimo insieme, riguarda l’anima e il corpo del governo federale ed è combattuto fra organi costituzionali del governo federale stesso.
Il conflitto è evidente e politicamente esplicito in modi piuttosto inusuali, fra il potere esecutivo, cioè un presidente democratico vincitore alla grande delle ultime elezioni, che si pensava protagonista di una svolta epocale, e una Corte suprema che è l’eredità più rilevante e radicalizzata della presidenza precedente e della più lunga epoca repubblicana. Lo scontro attraversa il potere legislativo, un Congresso diviso fra una Camera che agisce di conserva con il presidente e un Senato che è paralizzato, fa da zavorra e quindi agisce contro. Ed è innervato dalla contrapposizione fra i due grandi partiti, i democratici maggioritari nell’elettorato nazionale e i repubblicani il cui elettorato minoritario è influente nelle istituzioni del federalismo, che consentono il governo della minoranza, il Senato, appunto, e i governi degli Stati. La posta in gioco è una e doppia: i confini dell'autorità del governo federale e quindi la qualità delle politiche di regolamentazione e di tutela dei diritti che il governo federale può fare.
La posta in gioco è una e doppia: i confini dell'autorità del governo federale e la qualità delle politiche di regolamentazione e di tutela dei diritti che il governo federale può fare
Il conflitto, non da oggi, è così feroce che ha lasciato spazio a un presidente e a un pezzo consistente di Partito repubblicano dagli istinti putschisti che ha mobilitato gruppi militanti di cittadini nelle strade e che ha già favorito e promette di favorire forzature procedurali e sbreghi istituzionali.
Il presidente Biden aveva iniziato il suo mandato scommettendo su un «cambio di paradigma» (sono parole sue), su una rottura con il passato recente ma soprattutto con un'intera fase semisecolare di storia del Paese. Voleva un ritorno alla progettualità pubblica degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, al riformismo sociale del New Deal, al ruolo centrale del governo federale, al periodo prima delle pulsioni antistataliste che, in maniera diversa, avevano toccato entrambi i partiti. Il cuore della scommessa era la possibilità che la presidenza Trump rappresentasse la fase terminale, esausta e degenerata del ciclo politico-sociale conservatore inaugurato da Ronald Reagan: l'epoca della «fine del big government» si era conclusa, i problemi accumulati avevano messo in pericolo la stessa convivenza civile e richiedevano l'inizio di una nuova epoca di big government.
Biden e i democratici erano convinti di dover agire con urgenza, fare presto, affinché la scommessa si traducesse nell’avvio di un cambiamento reale, affinché i risultati del cambiamento avessero qualche impatto immediato a loro favorevole sull’elettorato. La democrazia e l'ordine costituzionale erano stati messi alla prova e, benché feriti, avevano mostrato vitalità e capacità di resistenza. Ma davvero, si chiedevano, i pericoli erano finiti? Davvero le spinte profonde che avevano sconvolto la vita pubblica erano rientrate, davvero si annunciavano tempi nuovi? E se i repubblicani ancora trumpiani, ancora complici della menzogna del grande imbroglio elettorale e delle spinte eversive del 6 gennaio, con le loro solide basi sociali, fossero stati in grado di prendersi una rivincita, di far di nuovo pendere dalla propria parte, con un piccolo tocco, la bilancia della fortuna?
Far presto è stato difficile, malgrado una partenza piuttosto buona nei primi mesi della nuova amministrazione. Ma poi, dalla fine dell'anno scorso, anche il «fare-e-basta» è stato quasi impossibile. La traduzione del nuovo paradigma in legislazione efficace si è rivelato wishful thinking, per obiettive ragioni interne e internazionali, per l'eccessivo ottimismo delle premesse, per la mancanza di fiato dei democratici in Senato, per la durezza dell'opposizione repubblicana. E, in prospettiva, da un punto di vista ideologico, per la cultura politica e giuridica che controlla la Corte suprema.
Il lavoro della prima stagione post-Trump della Corte dominata dai giudici di nomina trumpiana (con almeno un paio di forzature procedurali e grazie dall’arroganza di liberals che credono di essere eterni) va esattamente nella direzione opposta, radicalmente opposta, alla direzione evocata dal paradigm change di Biden. E lo fa in maniera altrettanto proattiva, verrebbe da dire in maniera aggressiva, ideologicamente militante. Cioè, non è che i supremi giudici agiscano come conservatori che resistono al solito disegno liberal di estendere i poteri del governo federale, non è che difendano lo status quo. Sono piuttosto impegnati a erodere l'autorità federale, a spingerne indietro il perimetro a epoche precedenti lo stesso ciclo iniziato con il New Deal. Una sorta di Ritorno al futuro, che peraltro era uno dei film preferiti del presidente Reagan. Insomma, questa Corte non cerca il containment, cerca il roll-back.
L’interpretazione conservatrice, ottocentesca, meglio ancora settecentesca, della Costituzione si presta fin troppo facilmente e con fondamenti testuali arcaici ma non inesistenti, e comunque manipolabili, a un'operazione di questo tipo, una volta che ci sia la volontà politica di farla. Varie decisioni rese pubbliche nell’ultima ondata di giugno 2022 lo confermano e, inoltre, due fra esse chiariscono bene come la Corte intenda operare una terza decisione che potrebbe arrivare l'anno prossimo.
Dobbs v. Jackson afferma che la questione del diritto alla libertà di scelta in tema di aborto non è nella Costituzione. La sua regolamentazione spetta alla politica, al processo democratico ordinario
Con la sentenza dagli effetti civili più immediati e devastanti, Dobbs v. Jackson (24 giugno), quella sull’aborto che rovescia la storica sentenza Roe del 1973, la Corte afferma che la questione del diritto alla libertà di scelta delle donne in tema di interruzione di gravidanza non è nella Costituzione, né derivabile da essa. Quindi, la sua regolamentazione spetta alla politica, al processo democratico ordinario. Ma se è così, se la Costituzione federale tace in proposito, è probabile che la materia non sia di competenza del processo democratico federale, cioè del Congresso, malgrado il suggerimento (forse strumentale?) della concurring opinion del giudice Brett Kavanaugh e malgrado i tentativi dei democratici di voler «codificare» Roe in una legge, appunto, federale. Vedremo cosa si inventeranno, ma che una legge del genere sia giudicata costituzionale sembra difficile – e comunque l'ultima parola spetterà alla Corte, a questa Corte. La tutela (o la negazione) di un diritto, dunque, sarà solo nelle mani degli Stati, con il governo federale tagliato fuori?
La sentenza Nysrpa v. Bruen (23 giugno), dichiarando incostituzionale una legge dello Stato di New York, peraltro di più di un secolo fa, ha affermato che lo Stato non ha l'autorità di condizionare il rilascio del permesso di portare armi da fuoco in pubblico a valutazioni selettive soggettive o arbitrarie. Cioè non può pretendere che chi chiede il porto d'armi dimostri in maniera convincente di avere una proper cause, una specifica buona ragione per farlo, per esempio per difesa personale contro minacce accertate. I permessi «devono» – non «possono» – essere dati a chi li chiede, perché il diritto dei cittadini di portare armi è un diritto garantito dal Secondo emendamento alla Costituzione. Qui, differentemente dal caso dell'aborto, il testo costituzionale dice qualcosa (per quanto l'interpretazione della Corte sia discutibile), ed è usato per negare l'autorità a legiferare di uno Stato, non del governo federale. Ma i casi futuri implicano che qualunque legge federale in materia debba rispettare simili strettoie. E ovviamente la Corte suprema, questa Corte, ne sarà il cane da guardia.
Il terzo caso è solo ipotetico, per il momento. La Corte ha deciso di prendere in considerazione nella prossima stagione 2022-2023 una disputa sorta in North Carolina che riguarda la pretesa delle assemblee statali di fare leggi elettorali, anche per le elezioni federali, senza interferenze da parte delle corti statali e di nessuno. Questo perché ci sarebbe nella Costituzione il principio di un loro potere esclusivo e insindacabile, laddove la Costituzione federale dice che «date, luoghi e modalità delle elezioni per i senatori e per i rappresentanti saranno fissate in ogni Stato dai rispettivi organi legislativi». Almeno tre giudici conservatori della Corte hanno già manifestato interesse a discutere questo principio; se il caso di fronte a loro venisse deciso nel senso da esso suggerito, gli effetti sarebbero dirompenti. Si aprirebbe la strada a una molto maggiore se non proprio totale autonomia (o arbitrarietà partisan, secondo i punti di vista) degli Stati nell'organizzare le elezioni federali, con una significativa riduzione di controlli da parte del governo federale.
E, a parte il patchwork di norme statali che ne deriverebbe, la storia recente di alcuni Stati è piuttosto sinistra in proposito.
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