Con il voto di fiducia al leader socialista Pedro Sánchez del 16 novembre si è chiusa la fase – più complessa e controversa dal ritorno della democrazia in Spagna – apertasi con le elezioni del 23 luglio scorso. Hanno votato a favore, oltre ai socialisti (Psoe) e ai deputati della coalizione Sumar, i rappresentanti di tutte le forze nazionaliste, da quelle indipendentiste a quelle moderate, presenti nel Congresso dei deputati: Junts per Catalunya, Ezquerra republicana de Catalunya (ErC), Partido Nacionalista Vasco (Pnv), Bildu, Bloque nacionalista gallego (Bng) e Coalición canaria (Cc). Sánchez ha ottenuto 179 voti (176 era la soglia per la maggioranza assoluta), contro i 171 voti del Partito popolare (Pp), di Vox e del rappresentante dell’Unión del pueblo navarro (Upn).

Alla conferma di Sánchez si è giunti dopo vari passaggi, una serie di accordi e la presentazione di una legge di amnistia da parte dei socialisti, momenti di snodo che occorre richiamare per cogliere la problematicità della legislatura che si è appena aperta e allo stesso tempo la novità che rappresenta.

Indiscusso vincitore delle elezioni di luglio era stato il Pp, il cui leader Alberto Núñez Feijóo, ricevuto l’incarico dal re, si era presentato alla fine di settembre al Congresso dei deputati senza ottenere la maggioranza necessaria in nessuna delle due previste votazioni. Un esito scontato poiché il sostegno della destra radicale di Vox gli impediva di ottenere quello dei partiti nazionalisti. A questo punto, dopo un altro giro di consultazioni, il sovrano ha affidato l’incarico di formare il nuovo governo al leader del secondo partito più votato, il socialista Pedro Sánchez. Da questo momento in avanti le proteste dei popolari, fiancheggiati da Vox, sono andate in crescendo. Prima ancora che prendesse effettivamente corpo la maggioranza che avrebbe potuto votare per Sánchez, il Pp ha cominciato a sostenere che per non tradire la volontà degli elettori occorreva tornare alle urne, che il nuovo governo poteva nascere solo da patti con gli indipendentisti non sottoposti previamente al giudizio degli elettori, che la svendita dell’unità territoriale della Spagna era un tradimento della Costituzione.

Sánchez non poteva che rivolgersi alle forze nazionaliste negoziando il loro voto

Ora, com’era anche in questo caso scontato, Sánchez non poteva che rivolgersi alle forze nazionaliste negoziando il loro voto. Nulla di nuovo sotto il cielo di Spagna, dal momento che, nella democrazia spagnola, ogni qualvolta il partito uscito vincitore dalle urne non aveva raggiunto la maggioranza assoluta era stato costretto a negoziare il voto di fiducia con i partiti regionalisti e nazionalisti. Che, ovviamente, non l’avevano concesso gratuitamente, ma sempre in cambio di ulteriori trasferimenti dal centro alla periferia, cioè dallo Stato alle proprie Comunità autonome. Clamoroso, a questo proposito, il gravoso accordo siglato da Aznar nel 1996 con il leader del nazionalismo catalano moderato Jordi Pujol. A complicare non poco la situazione attuale erano poi le condanne che si erano abbattute sui principali dirigenti del procés indipendentista, a cominciare dall’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont, rifugiatosi in Belgio per sfuggire ai rigori della legge.

Sánchez si è mosso in varie direzioni. Il 9 novembre il Psoe ha siglato a Bruxelles un accordo con Junts: un cedimento alla narrativa nazionalista sull’intero processo, secondo alcuni; una dichiarazione d’intenti capace di riportare sul piano politico e nel quadro costituzionale l’indipendentismo catalano, secondo altri. All’accordo ha affiancato pochi giorni dopo una proposta di legge di amnistia che copre i reati commessi dai nazionalisti catalani e dalle forze di polizia dal 1° gennaio 2012 al 13 novembre 2023 durante il procés o a esso connessi, complessivamente meno di 400 persone. Un attentato alla divisione dei poteri quando non un vero e proprio golpe secondo alcuni; una legge del tutto compatibile con la Costituzione, secondo altri. Nei giorni successivi altri accordi i socialisti hanno raggiunto con il Pnv e con Cc, in entrambi i casi fissando il calendario di ulteriori trasferimenti di competenze in materia economica e infrastrutturale.

I negoziati sono stati accompagnati dal dissenso esplicito della vecchia guardia socialista, cominciando dall’ex presidente del governo Felipe González

I negoziati sono stati accompagnati dal dissenso esplicito della vecchia guardia socialista, cominciando dall’ex presidente del governo Felipe González, da prese di posizione assai critiche di un nutrito settore della magistratura e di un drappello di militari della Guardia Civil, in un crescendo di insulti e mobilitazioni indette dal Pp fino a quelle del 12 novembre in tutti i 52 capoluoghi di provincia, culminate nell’imponente manifestazione nella capitale. Mentre alcune migliaia di scalmanati militanti di Vox, affiancati da gruppi di neofascisti e neonazisti, cingevano d’assedio per diverse sere la sede del Psoe a Madrid, provocando scontri con le forze dell’ordine.

Nulla lascia intendere che l’intensità dello scontro politico diminuirà nelle prossime settimane, mesi e probabilmente anni. Il Paese è profondamente diviso e la sua ricomposizione non s’intravede all’orizzonte. La legge d’amnistia, qualora dovesse essere approvata, verrà certamente impugnata dall’opposizione e sarà il Tribunale costituzionale a doversi pronunciare. Sánchez dovrà onorare i patti siglati, che in non pochi passaggi contengono formulazioni suscettibili di interpretazioni diverse. Alcune discrepanze si sono già palesate, poi, all’interno della sua maggioranza tra Podemos e Sumar.

D’altra parte, Sánchez, riconquistando nel 2017 la leadership del partito e ottenendo per la terza volta il voto di fiducia, ha dimostrato di avere politicamente sette vite e di sapere uscire dalle situazioni più intricate. Dalla sua ha i dati dell’economia, che vedono il Paese crescere, l’inflazione e la disoccupazione diminuire. Dal 2018 durante i suoi governi le tensioni nella società catalana sono fortemente diminuite e tranquilla è stata e resta anche la situazione nei Paesi baschi. La sua forza, e la novità della legislatura, è data dal fatto che – per usare le sue parole – facendo di necessità virtù si è mostrato aperto al dialogo sul modello di organizzazione territoriale dello Stato e, con esso, sull’irrisolto problema della pluralità nazionale del Paese iberico. Terreno quant’altri mai vischioso, ma che muove dal riconoscimento del carattere politico della questione catalana. Si può criticare il modo in cui l’ha fatto. Ma è difficile negare che, sotto molti punti di vista, rappresenta una svolta. Sia rispetto ai governi precedenti dello stesso Sánchez (2018-2023), sia e soprattutto rispetto a quelli presieduti dal popolare Mariano Rajoy (2011-2018), muto sul piano propositivo e per il quale l’indipendentismo catalano era solo una questione di ordine pubblico.