Quando a posteriori rifletteremo sull’esperienza dell’infezione da Covid19, uno dei primi elementi da mettere sul banco degli imputati dovrà per forza essere quello della comunicazione, a tutti i livelli. È indubbio che molti errori sono stati commessi, e questo possiamo stabilirlo già oggi, in tempo di piena pandemia.
Tentiamo una prima analisi. Nel triangolo terapeutico di salute, malattia e sanità entrano sempre in gioco tre soggetti che producono altrettante chiavi interpretative della patologia: l’individuo malato, l’istituzione medica e la società nel suo complesso, quest’ultima intesa come insieme di rappresentazioni simboliche collettive, strategie e/o visioni politiche, manovre economiche ecc. Quando la malattia è intesa come fenomeno collettivo (vedi le grandi pandemie della storia come peste, lebbra, sifilide), ossia quando la malattia smette di essere totalmente individuale (un esempio su tutti: la patologia oncologica), il bisogno di un messaggio coeso e univoco diventa ancora più urgente.
Quando l’infezione da Covid19 ha iniziato a diffondersi prepotentemente nel nostro Paese, questo messaggio univoco (magari addirittura trasmesso dalla voce autorevole di un’alta carica dello Stato a reti radio-tv unificate e via web) non solo è mancato, ma anzi è stato soppiantato da informazioni piuttosto contraddittorie su tre livelli: quello degli scienziati, che dovrebbero fornire le informazioni chiave al decisore politico; quello dei decisori politici, che dovrebbero trasformare queste informazioni in direttive strategiche e quindi in messaggi di rassicurazione; quello dei media, preposti a comunicare le direttive e a tradurre tali messaggi all’opinione pubblica.
Partiamo dal primo. Gli scienziati si sono mobilitati fin dal principio e, con apparizioni quotidiane in tv e via web, hanno enunciato pubblicamente opinioni tra loro talvolta discordanti. Il disaccordo era tra coloro che consideravano il nuovo virus «molto pericoloso, perché manda le persone nei reparti di terapia intensiva» e quelli che lo definivano «una problematica appena superiore all'influenza stagionale». Tra i rappresentanti della prima corrente, Roberto Burioni, ordinario di Microbiologia e Virologia all'Università San Raffaele, evocava l’urgenza di contenere il contagio. Tra i rappresentanti della seconda, Maria Rita Gismondo, direttore S.C. di Microbiologia e Bioemergenze all’ospedale Sacco, definiva una «follia» scambiare «un'infezione appena più seria di un’influenza per una pandemia letale», parlando di un grado di mortalità che allora, in Italia, era ancora «poco più dell’1%» (ma oggi per l’Iss è al 5,8%). Una terza via, poi, definiva le due opinioni «una diversa lettura dello stesso fenomeno», come suggerì Pierluigi Lopalco, ordinario di Igiene all’Università di Pisa.
Così facendo, il mondo scientifico si è mostrato in una posizione di evidente disaccordo e, quindi, di debolezza agli occhi di un’opinione pubblica già disorientata e confusa. Tanto che, in una fetta cospicua della cittadinanza, l’idea che l’infezione da Covid19 fosse «poco più di un'influenza» ha generato superficialità, trasmettendo una percezione errata del pericolo protratta nel tempo.
Sul fronte dei decisori politici, le cose non sono andate meglio. Dopo il caso di Codogno del 21 febbraio, le diverse comparse tv del premier Giuseppe Conte hanno avuto tra le conseguenze quella di diffondere ulteriore panico tra gli italiani. A rincarare la dose è sopravvenuto il pasticcio dei decreti lasciati trapelare all’opinione pubblica prima ancora che venissero firmati. Il primo, il Dpcm 23 febbraio 2020 che creava una zona rossa in Lombardia e Veneto, ha sortito l’effetto di spingere fiumi di persone nei supermercati e nelle farmacie alla caccia di cibo, mascherine e disinfettanti.
Il secondo, il Dpcm 8 marzo 2020, che estendeva questa zona rossa all’intero territorio nazionale, ha scatenato una sorta di esodo da Milano, con treni presi d’assalto da persone che lasciavano la Lombardia per altre zone d’Italia, col rischio di diffondere ulteriormente il contagio.
La sensazione generale è stata anche quella di un governo che rincorreva l’epidemia invece di prevenirla (magari con misure ancora più immediate, decise e uniformi). Del resto, l’esempio della Cina lo avevamo avuto chiaro sotto gli occhi, con in più il «vantaggio» di una trasposizione temporale che, se sfruttata, avrebbe potuto farci giocare d’anticipo. Questa sensazione è stata confermata da una diretta via Facebook in cui il presidente del Consiglio, nella notte tra il 21 e il 22 marzo, annunciava «la chiusura di tutte le attività produttive non essenziali». Nello stesso discorso garantiva – questa volta esplicitamente – la prosecuzione delle attività di supermercati, negozi di generi alimentari e farmacie.
In tutto questo lasso di tempo, la medesima comunicazione del governo è passata in poche ore da un primo atteggiamento di allarmismo a uno di sdrammatizzazione, fino a un generale abbassamento dei toni. Dopo le iniziali, numerose apparizioni tv, infatti – inclusa quella in un programma di intrattenimento generalista domenicale in cui il premier raccontava le (inefficaci) misure di contenimento relative al focolaio lombardo –, la strategia è cambiata. E, proprio dopo il secondo decreto citato, il presidente si è mostrato «rassicurante e senza falso pathos», appellandosi al «senso civico» degli italiani.
I media hanno svolto il loro ruolo di cassa di risonanza, seguendo l’onda anomala dell’allarmismo (solo il 22 febbraio, i titoli di alcuni dei principali quotidiani tuonavano: Virus, il Nord nella paura; Contagi e morte, il morbo è tra noi; Italia infetta), poi dell’abbassamento dei toni, poi di nuovo dell’allarmismo.
È stato così portato all’estremo il rischio di infobesity, l’«obesità da troppa informazione», frutto della crescita esponenziale delle informazioni ricevute (anche involontariamente) dagli utenti ogni giorno. Dapprima si è dato voce a scienziati più o meno concordi. Sono poi seguite le interviste ai medici in prima linea, che lanciavano allarmi sull’insufficienza di posti letto, di respiratori e di personale sanitario allo stremo. Infine, dopo la fuga di notizie riguardo alle linee guida Siaarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione, terapia intensiva) secondo cui si sarebbe data precedenza di cura «solo a quanti avessero maggiori possibilità di sopravvivere», è stata la volta delle interviste ai pazienti ricoverati che raccontavano la propria esperienza appesi tra la vita e la morte.
Come avrebbe dovuto rispondere l’opinione pubblica? Una buona parte si è fatta prendere dal panico, un’altra buona parte ha scelto di sottovalutare il pericolo – e lo dimostrano ancora oggi gli episodi di aggregazione irrisolti. Al di là della contingenza, seppur grave, è evidente come nella popolazione italiana manchi una consapevole educazione sanitaria. Cartina di tornasole sono, ad esempio, i pronti soccorsi improvvisamente vuoti o l’assenza inspiegabile di casi di ernie acute o appendicectomie nei reparti di Chirurgia.
La rivista americana «Emerging infectious diseases», edita dai Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, ha mostrato l’efficacia delle misure di isolamento sociale sul contenimento dell’epidemia. Il rispetto di queste misure abbatte del 50% l’entità del picco epidemico e lo riconduce a un livello che il sistema sanitario nazionale sarebbe in grado di gestire. Perché è questa la vera emergenza: il sovraffollamento delle strutture di cura che rischiano di non poter più gestire non solo i contagiati gravi, ma anche chi necessita di assistenza per altre patologie. Un concetto semplice, che tuttavia fatica a venire compreso.
Sia il panico sia la sottovalutazione del pericolo hanno un unico denominatore comune: la scarsità di conoscenza. Che in sanità fa più che mai la differenza. E che, da sola, semplicemente, sarebbe in grado di portare all’unico atteggiamento premiante: l’equilibrio e il rispetto delle regole.
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