ELEONORA LANDINI Partiamo da una domanda solo all’apparenza banale: che cos’è un museo?

CHRISTIAN GRECO I musei, per gli italiani, sono la somma degli oggetti contenuti nelle vetrine espositive; all’estero viene molto più tenuta in considerazione, anche dagli utenti, la restituzione dei risultati della ricerca e l’accrescimento culturale che ne deriva, dal momento che ogni museo è un centro di ricerca. Pensiamo al fatto che in Italia non esiste un dipartimento universitario con il nostro stesso numero di ricercatori: noi abbiamo 13 egittologi, in un dipartimento tipo italiano se ce ne sono 2 è una fortuna. Il Museo Egizio dunque è paragonabile all’università, con il valore aggiunto della collezione. Un museo senza ricerca non esiste, e lo dice l’etimologia stessa della parola: “museum” è usato per la prima volta da Aristotele nel IV secolo A.C. per indicare un centro di discussione e formazione legato all’Accademia, dove non sappiamo neppure se ci fossero degli oggetti, ma sicuramente si trattava di un centro dedicato alle Muse, dove i vari specialisti si interrogavano sulle domande fondamentali della ricerca. Un modello poi seguito da Tolomeo I Sotère ad Alessandria d’Egitto, dove pure un museo vicino alla biblioteca era un centro di incontro e ricerca. Questo il museo deve essere ancora oggi: per questo il museo conduce scavi, ha centri diagnostici, fa indagini per immagini, si occupa dello studio della biografia dell’oggetto. Il museo dunque non è fatto dalle sole sale espositive, ma dai suoi magazzini, dai suoi archivi, dalle sue biblioteche. Noi, per esempio, abbiamo una delle biblioteche specialistiche dell’Antico Egitto più importanti del Nord Italia, che accoglie tutti gli studenti, gli studiosi e i ricercatori che non hanno una biblioteca equivalente in università.

I nostri 13 egittologi fanno ricerca la più disparata, dallo studio della tipologia e della consistenza materiale dei nostri amuleti allo studio delle mummie animali, dei tessuti, dei sarcofagi. Il Museo Egizio peraltro ha fondato nel 2017 una rivista, “Rime”, di fascia A, open access, in formato html, in italiano, inglese, francese e tedesco – che sono le lingue dell’egittologia – con un abstract in arabo di ogni articolo, in modo che i risultati della ricerca siano accessibili a tutti, anche a chi non ha una biblioteca a disposizione.

L’anno scorso inoltre abbiamo accolto 89 internship di studenti, e alcuni di loro si laureano e ci chiedono di fermarsi a fare l’apprendistato per 3 anni e poi continuano a lavorare con noi; abbiamo vinto due borse Marie Curie… Ci comportiamo in toto come un ente di ricerca: l’unica differenza, forse, è che con l’Europa, attraverso Horizon, possiamo avere un Erc, mentre in Italia non possiamo accedere ai bandi Prin.

EL Come si coniuga un largo accesso di pubblico con il rigore scientifico di un centro di ricerca?

CG Nel 2020 abbiamo vinto un European Award for Research come Museo per un progetto che si chiama Tpop (Turin Papyrus Online Platform), un progetto europeo in collaborazione con le Università di Basilea e di Liegi. Il progetto consiste nel trovare una modalità per rendere accessibili i 17 mila frammenti di papiro inedito che noi custodiamo. Abbiamo cambiato completamente prospettiva rispetto a quanto si fa abitualmente: invece di investire su 1 o 2 papirologi che si dedicano per tutta la vita allo studio dei documenti e alla fine pubblicheranno 4 o 5 monografie, abbiamo deciso di costruire una piattaforma digitale in cui si possa costruire un puzzle con i frammenti da studiare. Ci siamo divisi i compiti: il Museo Egizio aveva quello di acquisizione materiale del dato, quindi del restauro del frammento di papiro, poi della sua acquisizione digitale e della costruzione di questa piattaforma collaborativa. Si è creata così una comunità di studiosi che si trova su questo tavolo digitale per capire come i vari documenti possano essere ricomposti. Parliamo di 17 mila frammenti, quindi è stata necessaria l’applicazione dell’intelligenza artificiale, ma anche lo studio della materialità, perché a volte non solo la grafia di uno scriba può essere riconosciuta, ma anche la materialità dell’oggetto – in questo caso, per esempio, il numero di fibre dei papiri permette di ipotizzare come un frammento possa essere collegato a un altro.

Questo, quindi, che nasce come un puro progetto di ricerca, ha poi portato allo sviluppo della piattaforma online che ha tre livelli: il primo è per il pubblico generalista, che può accedervi e vedere i vari frammenti di papiro, vedere la trascrizione dallo ieratico al geroglifico, vedere la traduzione e un commento. Il secondo livello è riservato, invece, agli studenti e a coloro che in tutto il mondo vogliono dedicarsi allo studio dei papiri o si vogliono esercitare per comprendere lo ieratico. Il terzo livello, infine, è proprio il luogo in cui si incontrano gli studiosi e possono scambiarsi le trascrizioni, sollevare e tentare di risolvere i propri dubbi, confrontare ipotesi. Si costruisce così una community attorno alla quale si possono raccogliere i più importanti studiosi al mondo.

Non possiamo accontentarci di produrre articoli scientifici letti da una dozzina di persone al mondo, dobbiamo saper coniugare una grandissima specializzazione con la capacità di tradurla per un pubblico più ampio

Ma vorrei fare un altro esempio inerente alla necessità di comunicazione dei risultati della ricerca – ricerca che, ricordiamolo, per un museo significa impiego di risorse, tempo ed energia. Si tratta di una questione etica di sostenibilità: non possiamo accontentarci di produrre articoli scientifici letti da una dozzina di persone al mondo, dobbiamo saper coniugare una grandissima specializzazione con la capacità di tradurla per un pubblico più ampio. La mostra Archeologia invisibile è nata da questa esigenza. Volevamo rendere visibile ciò che non è visibile. Innanzitutto la ricerca. Allora abbiamo cercato di spiegare come riportare il paesaggio al museo, spiegare lo scavo, la digitalizzazione degli archivi, lo studio dei pigmenti… In un museo che è assolutamente analogico abbiamo costruito una mostra essenzialmente digitale, in cui usavamo le nuove tecnologie di cui potevamo disporre. Mettevamo al centro un oggetto fisico, che poi, con dei grandi schermi, veniva analizzato: mostravamo le tac, le radiografie; facevamo vedere, ad esempio, come un sarcofago possa essere composto da 30 parti di sarcofagi diversi, e quindi come i sarcofagi del Terzo periodo intermedio riutilizzino i sarcofagi del Nuovo Regno. Abbiamo spiegato che cos’è la fotogrammetria e mostrato la documentazione dello scavo e quindi abbiamo ricostruito il paesaggio. Abbiamo spiegato la stratigrafia. Abbiamo spiegato come le indagini diagnostiche non invasive ci permettano di penetrare all’interno dei cofanetti e distinguere con XRF la composizione dei vari pigmenti. Abbiamo poi posto anche temi etici: dove ci dobbiamo fermare con quella che io chiamo l’umiltà del ricercatore? Ad esempio, se abbiamo dei contesti ancora intatti, dei vasi ancora chiusi e sigillati, è giusto aprirli? O forse è meglio aspettare, visto che dobbiamo consegnare questa memoria materiale alle generazioni che verranno e anzi stimolare la ricerca perché si possano fare sempre più indagini non invasive e si possono sviluppare nuove metodologie che ci permettano di indagare la cultura materiale senza che gli oggetti vengano danneggiati? Ebbene, questa mostra, con al centro la biografia dell’oggetto, doveva rimanere in allestimento per nove mesi, in realtà è rimasta per due anni, anche complice il Covid, e quando la abbiamo tolta abbiamo avuto una serie di proteste di persone che non erano riuscite a visitarla.

Così abbiamo deciso di integrare nelle gallerie permanenti alcuni dei percorsi proposti da Archeologia invisibile e nel 2024 apriremo una nuova ala del museo che si chiamerà proprio così, Archeologia invisibile, dove per esempio esporremo per la prima volta tutta la nostra vasoteca: 8 mila vasi che saranno disposti in librerie. Poi ne prenderemo uno o due e li spiegheremo: spiegheremo che cosa sono le analisi del residuo, come si studia il residuo, come sia cambiato lo studio della ceramica, che ora non è più solo uno studio tipologico ma è uno studio più processuale, per cui si mira a capire per quale rituale venisse utilizzato un recipiente, che liquidi venivano utilizzati e come possiamo, sulla base del solo dato ceramico, ricostruire un determinato rituale.

EL Mi pare che il Museo Egizio non si sottragga all’innovazione e al rinnovamento…

CG In Italia, in genere, un museo rinnova il modo di presentare le collezioni una volta ogni 83,5 anni e questo ritengo sia un dato molto negativo. Ad esempio in Olanda, il Paese in cui mi sono formato, un museo rinnova la presentazione delle collezioni ogni 15 anni e se ci pensa è naturale che sia così: se il museo è, come abbiamo detto, un ente di ricerca, perché dare ai nostri visitatori una visione statica e a volte superata, non più in linea con i risultati della ricerca? È come se all’università fosse proposto agli studenti un libro di 80 anni fa senza le dovute chiose di aggiornamenti bibliografici. Via via che la ricerca progredisce, bisogna mettere mano alle collezioni permanenti e cercare di interpretarle.

Noi abbiamo rinnovato il Museo Egizio nel 2015 e nel 2019 abbiamo ripensato l’ala della Storia del museo; quest’anno poi apriremo una nuova ala, la sala della Scrittura, dove esporremo i risultati della ricerca che stiamo conducendo sui papiri. Stiamo inoltre rifacendo completamente le didascalie della sala della Medina, perché per fortuna la ricerca va avanti, vengono pubblicati nuovi studi che forniscono nuove visioni, e nuovi dati provengono dagli scavi. Questo dinamismo deve rispecchiarsi all’interno delle nostre sale permanenti.

C’è poi un discorso più prettamente museografico che tante istituzioni stanno affrontando ed è quello di trovare modalità più sostenibili nella sostituzione, ad esempio, delle didascalie. Se continuiamo ad avere delle didascalie fisiche è molto complesso cambiarle: al Museo Egizio costerebbe 200 mila euro per tutte le sale. Ma in un futuro non lontano ci saranno sempre di più didascalie digitali, in cui con maggiore facilità si potranno aggiungere contenuti nuovi e andarli a modificare, magari mettendoli in relazione con il nostro sito.

EL Come si coniuga il patrimonio materiale con le possibilità del digitale?

CG Alcuni anni fa abbiamo vinto un bando che si chiamava Switch per la transizione digitale del museo. Ho voluto che si formasse una commissione all’interno del museo, una Commissione digitale, presieduta da uno dei nostri curatori, e di cui fanno parte professori ordinari del Politecnico e delle Università di Torino e di Milano, per capire come possiamo gestire i tanti dati in nostro possesso: i dati dell’oggetto con tutte le sue analisi, il dato dell’archivio, il dato dello scavo, il dato della ricontestualizzazione archeologica, della relazione tra un oggetto custodito da noi e altri oggetti che si trovano in collezioni sparse per il mondo o in Egitto. Bene, come possiamo gestire tutto questo?

Abbiamo cominciato a pensare a un nuovo sistema digitale. Assieme al Politecnico di Milano stiamo sviluppando un nuovo sistema, che si chiama Simex, per la gestione digitale dei dati. Stiamo arrivando alla normalizzazione dei dati, a uno studio categoria per categoria, che viene analizzata scientificamente per il suo valore intrinseco ed egittologico. Il dato viene poi studiato e quindi pubblicato. Questo nuovo sistema gestionale un domani, mi auguro, potrà dialogare direttamente con le nostre didascalie digitali: nel momento stesso in cui noi, nel nostro gestionale, modifichiamo una datazione o cambiamo un’interpretazione sulla base di nuova letteratura emersa, questo si rispecchierà immediatamente anche in sala.

EL Ritiene che la realtà aumentata sia un campo necessario da esplorare come museo?

CG Dobbiamo abbandonare l’idea di avere una fruizione basata sull’oggetto e andare più verso i contesti. A me piacerebbe un giorno riuscire a costruire il Museo Egizio Impossibile, dove tutto ciò che è stato separato, e che adesso si trova in varie collezioni, possa essere riunificato e messo in dialogo, magari ricostruendo il contesto di provenienza.

Per farlo, ovviamente, dobbiamo pensare di ricostruire digitalmente il paesaggio antico, mostrando come si sia modificato e facendo comprendere come il paesaggio sia un palinsesto dove l’elemento antropico ha operato. Quello che ne esce è un museo. Sono dei frammenti di memoria presi da questo paesaggio, che però per essere fruiti devono essere reinseriti nel paesaggio di riferimento.

Tutto ciò richiede studi specialistici, richiede una collaborazione sempre più stretta tra archeologi e architetti, affinché sia possibile la ricostruzione del paesaggio e poi la fruibilità dai nostri visitatori.

EL Non temete il sopravvento del digitale? Che le collezioni materiali perdano di interesse dal vivo e che le persone non frequentino più il Museo?

CG Assolutamente no. Ho lavorato per molti anni per l’Epigraphic Survey dell’Oriental Institute di Chicago e lavoravo a Luxor, dove si producevano volumi meravigliosi, epigrafici, sui templi e sulle iscrizioni dei templi. Ebbene, a un certo punto questi volumi – che oscillano tra i 1.500 e i 3.000 dollari a copia, poiché ci vogliono circa dieci anni dal momento in cui il primo disegnatore comincia a tracciare la prima linea di un rilievo di un tempio al momento in cui, con vari passaggi e tante correzioni, si arriva al volume definitivo – il direttore decise di digitalizzarli e di renderli fruibili sul sito dell’Epigraphic Survey. Basta andare sul sito e si trovano tutti, con un click si fa il download e si hanno a disposizione. Il timore era che così facendo sarebbe diminuito il numero di coloro che poi avrebbero fisicamente acquistato il volume. Invece è successo il contrario: il pubblico fruisce questi volumi, li conosce e poi li vuole comprare.

Se ci pensate anche il turismo di massa ha un meccanismo simile. In Egitto sono state fatte le prime spedizioni fotografiche in assoluto: François Arago, nel 1838, nell’annunciare all’Académie française che era stata inventata la dagherrotipia, aggiunse: “Diamo 1 o 2 di questi apparati fotografici e milioni di geroglifici che sono iscritti sulle pareti potranno finalmente essere documentati”.

La prima spedizione fotografica fu in Egitto, dove Maxim Du Camp, con Gustave Flaubert, realizzò 192 riprese. Poi ci fu una seconda generazione di fotografi, fra cui abbiamo i due fratelli Beato. La diffusione del materiale fotografico in Europa provocò una vera e propria Egittomania e la Thomas Cook cominciò ad esplodere per via del numero di persone che volevano andare in Egitto.

Dunque non dobbiamo avere timore di diffondere la conoscenza, la conoscenza è fondamentale e anzi può attrarre ancora di più il pubblico. Perché in un museo si trova ciò che online non si potrà mai vedere, ossia la materialità dell’oggetto. Anche noi siamo fatti di materia, ognuno con le proprie sfumature di colore; e così un sarcofago può essere di basalto o di granito rosa di Assuan e anche questo ha una sua specificità. Trovarsi di fronte a un oggetto significa comprendere fino in fondo la valenza di quell’oggetto e quanto quell’oggetto abbia da dirci.

Non penso che le due dimensioni – materiale e virtuale – siano in antagonismo. Penso anzi che una visita digitale del museo possa preparare poi a una visita fisica che permetterà di approfondire dei contenuti e mettere in relazione aspetti che solo fisicamente possono essere correlati. Vedere l’oggetto davanti a sé, senza il filtro di uno schermo, ha una valenza completamente diversa. Durante il periodo del Covid ho iniziato a condurre digitalmente le cosiddette “passeggiate col direttore”, una formula che mi sono inventato nel 2014: una volta al mese passeggio con 30 visitatori dopo l’orario di chiusura. Ecco, durante la pandemia, viste le restrizioni, abbiamo proposto 56 appuntamenti online, che hanno coinvolto in media 4 milioni di visitatori digitali. Bene, da quando sono tornato a poterle fare in presenza è sempre tutto esaurito: il fatto di avere una possibilità online non inficia poi la volontà delle persone di venire a passeggiare con me fisicamente.

Quotidianamente, attraverso la ricerca, costruiamo la memoria, la memoria di noi tutti, la memoria stratificata della collettività. Quindi, in primis, i musei appartengono alla comunità in cui sono inseriti

EL Quanto siete sostenuti dalle politiche pubbliche per svolgere tutte le attività che ci ha raccontato?

CG Sono molto felice che ormai da due governi non ci sia più la commistione fra il ministero della Cultura e il ministero del Turismo: sono due realtà completamente diverse che devono avere strategie completamente diverse.

Ma torniamo alle funzioni del museo. Il Museo è quel luogo, assieme alle biblioteche e agli archivi, a cui la Repubblica demanda non solo la conservazione, ma anche la costruzione della memoria. Noi non siamo dei meri custodi che consegnano alle generazioni che verranno gli oggetti che abbiamo custodito. Noi, tramite la ricerca e, come diceva Hegel, lo Zeitgeist , secondo lo spirito del tempo, costruiamo le nostre interpretazioni, che sono finite e fallibili, come lo è la ricerca, e che fra 30, 50 o 100 anni verranno superate, ma che ora permettono alla nostra generazione, con gli elementi culturali che abbiamo, di comprendere questa collezione.

Noi quotidianamente, attraverso la ricerca, costruiamo la memoria, la memoria di noi tutti, la memoria stratificata della collettività. Quindi, in primis, i musei appartengono alla comunità in cui sono inseriti. Io uso sempre questa metafora: chiunque di noi sia stato vicino a una persona che ha sofferto di una malattia neurologica degenerativa ha notato come questa persona, con enorme sofferenza, nel perdere la memoria, non sia più in grado né di rivolgere lo sguardo verso il futuro né di camminare nel presente.

Ebbene, una società senza memoria è una società che non ha futuro. Questo è il ruolo dei musei: i musei sono come l’enciclopedia materiale delle generazioni che ci hanno preceduto, ci permettono di comprendere il passato e quindi il presente e poi di pianificare il futuro. Per questo motivo dobbiamo avere delle politiche che portino ad accrescere la partecipazione culturale, innanzitutto dei nostri cittadini. Il museo deve fare ricerca e saperla comunicare, deve trovare delle modalità per spiegare fenomeni complessi con parole che siano fruibili da tutti.

Abbiamo la fortuna di avere la tecnologia che ci permette di osservare un fenomeno in un arco temporale molto lungo e questo poi ci consente di relativizzare fenomeni che ci sembrano cogenti, soprattutto in una società, come quella italiana, che vive di un presentismo che è quasi una nemesi della storia. Abbiamo un passato importantissimo, ma non siamo abituati a fare analisi storiche di lungo respiro: vogliamo risposte immediate ai fenomeni che accadono. Il museo, invece, ci riporta con i piedi per terra, ci fa comprendere come noi siamo parte di un continuum. La nostra vita è come la pagina di un libro: per comprenderla non possiamo semplicemente aprire il libro a 812, la nostra pagina. Dobbiamo avere letto anche le pagine precedenti, perché così capiamo a che punto siamo della narrazione, ci orientiamo.

L’Italia ha bisogno di incentivare moltissimo la partecipazione museale, dobbiamo cambiare completamente prospettiva, partendo innanzitutto dalla condivisione del sapere. Il Museo Egizio lo sta cercando di fare, ad esempio con la diffusione del patrimonio iconografico che noi rendiamo fruibile a tutti in formato CC0. Crediamo fermamente che il patrimonio appartenga a tutti, che debba essere fruito e che debbano essere messe in atto politiche che mirino ad avvicinare la collettività.

Abbiamo attivato diverse iniziative in questa direzione. Ad esempio introducendo un biglietto agevolato per le famiglie, per incentivarle a venire al museo, perché sappiamo quanto pesa l’inflazione e quanto pesano i costi. Cerchiamo così di essere vicini a coloro che non potrebbero partecipare alla vita museale. Abbiamo introdotto da quest’estate un’iniziativa che ho voluto molto, che si chiama “Il martedì al museo”, dedicata soprattutto alle persone over 70 che hanno scarsa disponibilità economica, sono sole e non possono permettersi di andare in vacanza: offriamo loro il biglietto di ingresso e una visita gratuita con un egittologo che li accompagna per 2 ore per le sale. Ha avuto molto successo. Non solo: ormai da anni abbiamo un’altra iniziativa per chi rimane in città che si chiama “Speciale estate”: il sabato sera offriamo la possibilità di entrare a un prezzo ridotto a 5 euro. Infine quest’anno, grazie a una sponsorship con Francorosso, durante tutti i weekend estivi si poteva entrare gratuitamente.

Ecco, queste sono iniziative per noi importantissime, come il biglietto a 2 euro per tutti gli studenti universitari – per tutti, ribadisco, perché ritengo che la gratuità data solo a chi studia Storia, Storia dell’arte o Archeologia sia una visione assolutamente miope. Noi dobbiamo invece far capire che questa è la memoria collettiva non solo di coloro che la studiano, ma di tutti.

Un’altra iniziativa a cui tengo molto è stata pensata sul modello di quanto già faceva il Rex Museum di Amsterdam, che nel 2006 ha vinto il Premio come miglior museo europeo con un progetto molto bello, ossia andando a prendere con dei pullman e portando al Museo gli studenti di tutte le scuole d’Olanda. Grazie al sostegno che ci ha dato la Cassa Depositi e Prestiti, noi, similmente, abbiamo censito tutte quelle scuole del territorio che non frequentavano il Museo – scuole di quartieri disagiati, con situazioni difficili –, siamo andati a prenderne gli studenti e li abbiamo portati all’Egizio, sviluppando con loro, in collaborazione con gli insegnanti, dei progetti ad hoc che permettessero poi a questi ragazzi di imparare a conoscere le collezioni e di appropriarsi di un pezzo di città che appartiene anche a loro.

Ecco, queste sono le politiche che abbiamo messo in campo noi, politiche che dovrebbero essere ulteriormente incentivate a livello nazionale. Ritengo che due settori dovrebbero essere assolutamente al centro dell’attenzione del ministero della Cultura: innanzitutto la ricerca sulle collezioni, che dovrebbe essere garantita e pagata dallo Stato. Noi siamo una fondazione privata, ma gestiamo una collezione pubblica e la ricerca non può dipendere dal numero di visitatori che entra al Museo: che entrino milioni di visitatori o che ne entrino, come negli anni del Covid, zero, la collezione deve essere mantenuta e deve essere studiata. E questo dovrebbe essere garantito. Se noi investiremo di più a livello nazionale nella ricerca avremo un ritorno immediato. Dovremo poi anche trovare modalità che ci permettano di ancorare la collezione alle comunità locali, traducendo concetti complessi in modo che possano diventare comprensibili a tutti.

Stando ai più recenti dati Ocse, nel nostro Paese il 26% degli italiani frequenta un museo una volta all’anno. I Paesi scandinavi raggiungono il 90%. Evidentemente, abbiamo moltissimo da fare per aumentare il numero dei visitatori

In secondo luogo, bisogna trovare delle modalità che possano essere di defiscalizzazione, di incentivazione in qualche modo per aumentare la partecipazione culturale. L’ultimo rilevamento Ocse dice che in Italia il 26% degli italiani frequenta un museo una volta all’anno. I Paesi scandinavi raggiungono il 90%: come è chiaro, abbiamo moltissimo da fare per aumentare il numero dei visitatori. Possiamo rallegrarci del ritorno dei turisti americani in Italia, ma non dobbiamo dimenticarci che gli oltre 4.600 musei sparsi in tutto il territorio nazionale rappresentano in primis la memoria collettiva della nostra nazione e dobbiamo fare in modo che in questo senso vengano sfruttati.

Trovo assurdo che i nostri ragazzi, con un patrimonio culturale come il nostro, facciano lezione in aule scolastiche e non facciano almeno una volta a settimana una visita a un museo, a una biblioteca, a un archivio, a un teatro. Non necessariamente per conoscerne i programmi, le collezioni o i fondi: al Museo Egizio si può venire, per esempio, a studiare la geometria e la matematica prima di Euclide. Si può venire a studiare la tavola periodica perché si possono riconoscere i vari metalli presenti all’interno della nostra collezione; si può venire a studiare la storia della tecnologia e l’introduzione della fotografia. I musei possono essere declinati in vari modi e dovrebbero essere fruiti molto di più: è un po’ assurdo che con un patrimonio culturale come il nostro i ragazzi facciano una visita al museo una volta all’anno. Le nostre istituzioni culturali, che sono diffuse capillarmente, voglio ricordarlo, dovrebbero diventare non il luogo della gita, ma il luogo della frequentazione costante in cui formarsi.

È assurdo che i nostri ragazzi, con un patrimonio culturale come il nostro, facciano lezione in aule scolastiche e non facciano almeno una volta a settimana una visita a un museo, a una biblioteca, a un archivio, a un teatro

Un altro esempio: durante il Covid, quando in Italia le scuole erano chiuse, l’Olanda decise di aprire le grandi sale-concerto ai ragazzi. Che cosa succedeva? I liceali di Amsterdam andavano al Concertgebouw, ovviamente distanziati, e assistevano per una settimana alle prove di un’opera, capendo come nasce, come si mette insieme, come si coordina il lavoro di tutti i musicisti. Magari così non seguivano i programmi scolastici, ma in questo modo, secondo me, hanno trascorso una settimana che non dimenticheranno mai. La scuola dovrebbe anche aiutare a conoscere le varie professioni nel mondo della cultura, e dovrebbe fare in modo che gli italiani si riappropriassero del loro patrimonio culturale.

AS Bobbio diceva che una delle promesse mancate della democrazia è l’istruzione di massa.

CG Ritengo che il museo dovrebbe essere il luogo in cui viene applicato fino in fondo l’articolo 3, comma 2, della nostra Costituzione. Il museo può davvero essere quel luogo che rimuove gli ostacoli per lo sviluppo armonico della personalità, perché, a differenza della scuola e dell’università, non richiede crediti o diplomi, ma è accessibile a tutti e tutti dovrebbero potervi trovare una modalità per un proprio accrescimento culturale, facendolo diventare un luogo di alfabetizzazione.

Il museo poi ci insegna a conoscere l’altro, a relativizzare noi stessi, a capire che non esiste un punto di vista univoco, ma che noi ne abbiamo semplicemente uno e che nella storia, di fronte a un problema simile, gli uomini si sono confrontati con soluzioni diverse. Il museo ci fa davvero capire che il nostro punto di vista è solo uno dei vari possibili e che non esistono certezze e verità assolute. Ci insegna a dire anche dei “non so”: in passato è stato un luogo molto autoreferenziale, mentre nel presentare i risultati della ricerca deve avere il coraggio di dire: “Ci sono interpretazioni diverse, interpretazioni che non sappiamo. Non possiamo dare una valutazione perché non lo sappiamo”. Con i miei studenti, quando tengo il corso di Lingua, mi capita di dire che dei passaggi di un testo non riesco a tradurli, di ammettere di avere delle difficoltà. Allora assieme cerchiamo di analizzare le varie ipotesi e quali potrebbero funzionare meglio.

Il museo ci fa molto riflettere su un tema che viene spesso abusato, quello dell’identità. “Identità” non è un nome greco, è un nome latino, deriva da “idem”. Platone riteneva, citando Eraclito, che non esistesse l’identità perché nel momento stesso in cui ci alziamo al mattino la nostra pelle è diversa, i nostri capelli sono diversi. Quando mettiamo i piedi in un ruscello, l’acqua che sentiamo all’inizio è diversa dall’acqua che sentiamo alla fine. Siamo in continuo divenire. Ecco, allora, che cade quel concetto di una identità di noi contro gli altri. Tutto è più ibrido. E guardando i fenomeni in un arco cronologico ampio impariamo davvero a relativizzare: questa penso sia la lezione più importante che si può imparare da qualsiasi museo noi visitiamo.

 

[Questa intervista deve molto ad Arianna Santero, che vi ha preso parte e che ringraziamo per le preziose suggestioni].