L’esplosione della polemica politica per il caro affitti e le condizioni di disagio in cui vivono migliaia di studenti – e non solo: cittadini, lavoratori – è uno dei temi centrali su cui si confrontano diverse idee di società. Ma anche, e soprattutto, due classi sociali: come ha notato Ricardo Tranjan nel suo The Tenant Class (Between the Lines, 2023), siamo di fronte a un classico conflitto distributivo: c’è un gruppo sociale – ricco, molto ben rappresentato tra i media – che guadagna dalla dinamica dei prezzi degli immobili: i locatori, prima di tutto; ma, in parte minore, anche i semplici proprietari che vedono aumentare prezzi delle proprie abitazioni. Mentre dall’altra parte, con ben meno potere politico e mediatico, si trovano studenti, affittuari, giovani, gli esclusi dal mercato del mattone.
Quello dei prezzi degli immobili e del diritto alla casa non è certo un problema nuovo né tantomeno solo italiano. Dell’effetto Airbnb, per esempio, si parla da più di un lustro: affitti a lungo termine trasformati in contratti a breve e brevissimo termine per sfruttare le opportunità date dall’afflusso turistico, con conseguente riduzione dell’offerta e aumento dei prezzi delle case dove abitare. Un problema cui molte città hanno provato, in qualche maniera, a rispondere: complice la pandemia, in Irlanda pure un governo di centrodestra si è impegnato a comprare appartamenti affittati a scopo turistico per trasferirli nel mercato degli affitti a lungo termine; a Parigi gli affitti a breve sono consentiti per soli 120 giorni all’anno, disincentivando dunque l’uso turistico saltuario; a Lisbona il Comune ha provato a contrattare con Airbnb un prezzo pattuito per cinque anni per poi ri-affittare a medio-lungo termine.
Più in generale, per alleviare il problema di una insufficiente offerta abitativa, a Londra, dove c’è un numero scandaloso di appartamenti sfitti, si è deciso di (tar)tassare chi tiene le case vuote. Toronto e Vancouver hanno introdotto tasse che penalizzano gli acquisti di immobili da parte di non residenti. La Catalogna ha deciso di espropriare, parlando (addirittura) di funzione sociale degli immobili.
Non basta, ovviamente. I problemi vanno oltre le fluttuazioni nel mercato degli affitti: non si tratta, infatti, di una crisi ma di una situazione permanente figlia di un preciso modello economico e sociale. Come denuncia Saskia Sassen, le grandi città sono diventate terreno di speculazione per il capitale che compra grandi aree edificabili, sottraendole alle finalità pubbliche, asservendo ai suoi interessi le infrastrutture. Il punto centrale, dunque, è se esistano dei diritti sociali da tutelare e dunque degli obblighi pubblici che le istituzioni debbano ottemperare. A cominciare ovviamente dal diritto allo studio. A Nottingham, per esempio, il Comune, a fronte del continuo aumento degli studenti stranieri, si è impegnato a intervenire direttamente – tra le altre cose garantendo uno standard minimo di servizi e prezzi ragionevoli.
La strada maestra è dunque ripristinare un modello sociale ed economico in cui l’accesso alla casa non sia più garantito dal solo mercato
La strada maestra è dunque ripristinare un modello sociale ed economico in cui l’accesso alla casa non sia più garantito dal solo mercato. In effetti uno dei pilastri della svolta liberista negli anni Ottanta fu proprio la privatizzazione delle council house: anche in quel caso una mossa fortemente politica con cui Thatcher, vendendo il patrimonio pubblico agli inquilini, si costruì una forte base di consenso elettorale; e allo stesso tempo permise ai grandi immobiliaristi di regolare l’offerta e il prezzo delle abitazioni. Il punto fondamentale è proprio questo: il mercato – o meglio, le grandi imprese che lo dominano – predilige un certo tipo di investimenti, corporate building, appartamenti di lusso, in genere quelli che portano i maggiori profitti. Le città, invece, sono organismi politici che richiedono pianificazione – e quindi un generale ripensamento del rapporto tra democrazia, mercato e bisogni sociali, passando attraverso una “decommodificazione” di questi ultimi. Barcellona, dove esiste una forte coalizione sociale in difesa dei diritti delle fasce più deboli, rappresenta una avanguardia: non solo dà un sostegno al reddito per chi non può pagare l’affitto, in contrasto con la logica del sacrificio così presente nel dibattito italiano; non solo pone limiti ad Airbnb, e quindi modifica gli incentivi di mercato; non solo interviene contro le case sfitte, limitando i diritti di proprietà; ma ha un ruolo attivo nell’offerta abitativa costruendo direttamente case sociali, quartiere per quartiere, per evitare che chi perde la propria dimora debba trasferirsi in altre parti della città – una idea di mondo dove i legami extra-economici sono centrali al contratto sociale.
Barcellona, dove esiste una forte coalizione sociale in difesa dei diritti delle fasce più deboli, rappresenta una avanguardia
Il modello di riferimento è però, senza dubbio, Vienna: la capitale austriaca ha ereditato dagli anni della Vienna rossa un grande numero di appartamenti di proprietà municipale – circa 220 mila unità, il 25% delle abitazioni disponibili in città. Dagli anni Ottanta ha ulteriormente aumentato l’offerta (di altre 200 mila unità) con una collaborazione pubblico-privato in cui il Comune cede la proprietà della terra ai costruttori dopo aver valutato i progetti e con l’obbligo che metà delle unità abitative costruite siano affittate direttamente dal Comune a famiglie con redditi medio-bassi. Inoltre, grazie al continuo aumento dell’offerta al ritmo di 5.000 nuove unità per anno, anche all’aumentare del reddito non si è costretti ad abbandonare le case affittate a “prezzo politico”, permettendo la crescita di comunità con livelli di reddito diverso, ed evitando così i classici quartieri-ghetto per poveri.
Mentre in Italia molti stigmatizzano le proteste studentesche, il resto dell’Occidente discute di soluzioni – più o meno convincenti – per un problema reale. Che chiama in causa in primo luogo la politica.
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