L’Aquila è una città fantasma. Sia chiaro: non è chiusa una “zona rossa”, come si è lasciato intendere. È chiusa un’intera città. Messa tra parentesi, in attesa di non si sa che cosa, se non di un degrado i cui segni sono già evidentissimi. D'altronde sono trascorsi ben quattro anni. E la città, una città bellissima e un tempo assai viva e civile{C}, è ora incapsulata in gabbie di legno e di acciaio, che all'osservatore appaiono in molti casi sovradimensionate e auto celebrative. Alcune sembra reggano soprattutto se stesse, se non il nulla.
Dell’Aquila, del suo centro storico, della spersonalizzazione del vivere quotidiano da centro civico per eccellenza a non-luogo si è parlato con grande competenza e passione civile in occasione dell’incontro organizzato domenica 5 maggio, che ha visto la partecipazione di storici dell’arte provenienti da tutta Italia. Pubblichiamo l’intervento introduttivo di Tomaso Montanari, che dell’incontro è stato l’artefice, e l’appello che gli storici dell’arte rivolgono al governo e all'intera classe politica italiana. Perché L’Aquila è tutto fuorché un problema locale. È la metafora del degrado italiano e dell’incapacità da parte della classe politica di farsene carico.
Cari colleghi, cari amici, benvenuti all'Aquila.
Siamo molto grati alla città – a tutte le sue istituzioni, a tutti i suoi cittadini – per averci accolti, oggi.
Siamo grati al sindaco, al prefetto, al questore. E a don Gino, il parroco di questa chiesa, che è anche lui uno storico dell'arte.
Salutiamo la cittadinanza attiva dell'Aquila, che ha così tante buone ragioni per essere radicalmente critica con le istituzioni di questa città.
Siamo grati ai colleghi e amici Fabrizio Magani, direttore generale dei Beni culturali in Abruzzo, Luciana Arbace e Sandra Vittorini, soprintendenti ai Beni artistici e ai Beni architettonici, impegnati ogni giorno nella trincea che ora potete immaginare.
E siamo grati a Massimo Bray, il nuovo ministro per i Beni culturali, che ha voluto iniziare il suo mandato (da cui tutti noi ci aspettiamo così tanto) proprio dall'Aquila, oggi. Non per parlare, ma per vedere e ascoltare. Un piccolo, ma importante, segno di primavera in questo terribile, eterno inverno della politica italiana. Vorrei dirti grazie, caro signor ministro, per avere avuto il coraggio di cominciare il tuo mandato in tutto questo dolore: ma spero che accanto a questo, avrai sentito e nei prossimi minuti sentirai anche l'amore, la passione civile che tutti noi proviamo per il nostro patrimonio storico e artistico. È davvero grande il peso che hai accettato: ognuno di noi si aspetta moltissimo dal tuo lavoro.
Sono poi felice di ringraziare tutte le associazioni che hanno promosso e organizzato insieme a me questa giornata: l'Associazione nazionale archivi di architettura contemporanea, l'Associazione nazionale insegnanti di storia dell'arte, il Comitato per la bellezza, la Consulta universitaria nazionale di storia dell'arte, Eddyburg.it, Patrimonio sos, TQ; e, permettetemelo, in modo particolare Italia nostra, nazionale e aquilana, che ha contribuito in ogni modo all'organizzazione e al (seppur minimo) finanziamento della giornata, e che oggi è eccezionalmente presente con il suo Consiglio nazionale al completo, e col suo presidente.
Salvatore Settis – che mi invitò a visitare con lui l'Aquila terremotata – ha approvato con entusiasmo questa idea fin dall'inizio, ne ha seguito ogni passo e ha accettato di concludere oggi i nostri lavori: per tutto questo, gli sono gratissimo.
Ringrazio egualmente tutte le associazioni italiane e internazionali che hanno aderito, e che trovate sulla locandina.
Sono gratissimo a Maria Grazia Vernuccio, che ha curato la comunicazione. E a Santa Nastro, l'anima pratica, e non solo, di questa giornata: senza di lei, nulla sarebbe stato possibile.
E ringrazio soprattutto ciascuno di voi, che oggi siete venuti all'Aquila in un numero straordinariamente alto.
Ma perché riunirci proprio all'Aquila? Qual è il senso ultimo di questa giornata?
Quando ho visto l'Aquila per la prima volta dopo il terremoto ho pensato che nessuna fotografia, nessun articolo, nessun documentario potevano far capire cosa era successo davvero. Immagino che sia quello che molti di voi hanno provato stamani.
Così, mi venne in mente un passo famoso del poema di Voltaire sul disastro di Lisbona, distrutta dal terremoto nel 1755: «Philosophes trompés qui criez 'tout est bien'...»: «Filosofi che errando gridate 'tutto è bene' / Accorrete, contemplate queste rovine orrende».
E dunque. Storici dell'arte, convinti (come siamo, purtroppo) che il nostro compito sia organizzare il tempo libero, collaborare all'industria dell'intrattenimento, colorare gradevolmente il disimpegno inaugurando una mostra ogni 45 minuti (è un dato reale): accorriamo all'Aquila, contempliamo queste rovine orrende.
E rientriamo in noi stessi. Riappropriamoci della nostra missione costituzionale, riscopriamo la nostra vera identità.
Attraverso i nostri occhi l'Aquila deve entrare nella coscienza intellettuale della nazione.
È per questo che stamani abbiamo voluto vedere, in silenzio e con i nostri occhi.
Vedere con i propri occhi: è su questo che vogliamo fondare il nostro giudizio. Non è forse il principale dovere di uno storico dell'arte, l'essenza stessa del nostro lavoro? Già Raffaello diceva: «confrontare l'opere con le scritture». Di scritture sull'Aquila ne abbiamo lette tante: ecco, oggi siamo di fronte a questa terribile opera della natura e della stoltezza umana. Era dal tempo del terremoto di Messina che un simile disastro non colpiva con tanta gravità un centro storico di questa estensione e importanza.
Tutto questo deve modificare in profondità la nostra coscienza di storici dell'arte: l'Aquila deve diventare un punto nodale, come lo sono state le distruzioni della guerra per una generazione, e l'alluvione di Firenze per un'altra.
Nel 1944, di fronte al disastro del bombardamento di Genova, Roberto Longhi disse che gli storici dell'arte dovevano farsi un «interminabile esame di coscienza»: per «non aver detto e propalato in tempo quanti e quali valori si trattava di proteggere»; per non esser stati abbastanza «popolari».
Ebbene, noi oggi di fronte alle rovine dell'Aquila, possiamo non farci un simile esame di coscienza? Sarebbe stato possibile lasciare a terra per anni un monumento enorme e cruciale come il centro dell'Aquila se noi storici dell'arte avessimo saputo parlare al Paese, spiegare quali valori si trattava di proteggere?
È giunto il momento di farcelo, questo esame di coscienza. L'Aquila deve essere un punto di svolta nel nostro modo di essere storici dell'arte.
Dopo aver camminato per due ore tra queste rovine, è impossibile non capire che oggi l'urgenza culturale e civile è studiare, conservare e spiegare i contesti: non estrarre i singoli 'capolavori' dai contesti per inserirli in mostre itineranti senza progetto scientifico.
All'Aquila è impossibile non vedere il valore civile, costituzionale, della nostra amata disciplina: la storia dell'arte deve tornare a restituire ai cittadini italiani le chiavi conoscitive delle loro città storiche.
La storia dell'arte o è politica (cioè «discorso sulla polis», sulla città), o non è.
Fatemelo dire con le parole che Aristofane presta a Euripide nelle Rane: «Odio il cittadino che ad aiutare la patria è per natura lento, ma prontissimo a farle gran danno. Ed è pieno di risorse per se stesso, per la sua città incapace di fare alcunché».
Ecco, la storia dell'arte non deve pensare solo a se stessa, deve tornare ad aiutare la città. La nostra ricerca deve saper parlare a tutta la comunità nazionale, e non solo alla nostra stretta comunità scientifica.
Dobbiamo tornare a gridare, per dirla con Longhi, «quali e quanti valori si tratta di proteggere».
Il principale tra questi valori è proprio la funzione civile dell'arte figurativa.
Dobbiamo tornare a dire agli italiani di oggi che le loro città sono belle non per compiacere i turisti, ma per dar forma alla loro vita civile e politica. La forma della polis è forma della politica: per secoli la forma dello Stato, la forma dell’etica, la forma della civiltà stessa si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici.
È per questo che la Repubblica – lo afferma l’articolo 9 della Costituzione – nel momento della sua nascita ha preso sotto la propria tutela il patrimonio storico e artistico della nazione: perché quel patrimonio è stato il luogo e lo strumento della formazione della comunità nazionale, visceralmente ancorata alle cento città d’Italia.
Un crudele paradosso vuole che forse in nessun altra città italiana tutto questo fosse – anzi, ancora, sia – visibile come all'Aquila: che è una delle rarissime città fondate dai suoi stessi cittadini, e con un piano urbanistico dettagliatissimo. Una città i cui gli innumerevoli e meravigliosi spazi pubblici nascono proprio per tradurre in immagine gli equilibri dei fondatori, i tanti castelli che nel XIII secolo cercarono uno spazio comune, che non fosse solo un mercato, ma una città.
Il grande urbanista aquilano Marcello Vittorini ha mostrato come nell'Aquila nascente gli spazi pubblici venissero prima di quelli privati: «La città è cinta da mura che hanno 86 torrioni e 12 porte e lo spazio da esse delimitato (ben 167 ettari) è diviso "in croce", cioè in quattro "quarti", articolati in 54 "locali": spazi destinati all'insediamento degli abitanti provenienti dai centri fondatori, dimensionati secondo la loro consistenza demografica. Secondo gli "Statuti" della nuova città, gli abitanti possono insediarsi "uti singuli" nei locali, solo dopo aver realizzato collettivamente, "uti socii", la piazza, la chiesa, la fontana. Cioè, all'epoca, le opere di urbanizzazione primaria e secondaria».
E l'impronta fu cosi decisiva e felice che sei secoli dopo, nel 1835, il viaggiatore inglese Richard Keppel Craven poteva annotare nel suo diario che all'Aquila «vi sono numerosi edifici pubblici di una grandezza che arriva alla magnificenza ... le vie sono generalmente larghe e ben pavimentate, e gli edifici dispiegano uno stile architettonico e dimensioni che stabiliscono i punti della sua somiglianza con Roma».
E se l'Aquila è arrivata fino all'Ottocento, e poi intatta fino a noi, se è sempre rimasta «immota» (come vuole il suo motto eroico) nonostante i tanti, tragici terremoti non lo si deve certo alla benevolenza della sorte, ma alla tenacia dei suoi cittadini. Dopo il terremoto tragico del 1349 il poeta e cronista aquilano Buccio di Ranallo poteva scrivere: «Però che era l’Aquila così male arrivata
/ De ecclesie et d’edifizi et tanto dirrupata
/ Et anche dalle mura non era circondata
/ Molti uomini credevano che più non fosse abitata».
Ma quegli uomini si sbagliavano. L'Aquila non ha mai cessato di essere abitata, terremoto dopo terremoto: solo oggi non lo è più. E noi non vogliamo essere la generazione che abbandona l'Aquila: la generazione del tradimento e della resa. Non lo vogliamo, e non lo saremo.
Ma quale male oscuro ci ha portati a prendere un caso così mirabile e a trasformarlo nel suo esatto contrario?
Il cordone ombelicale tra città e cittadini all'Aquila è stato reciso: ma non dal terremoto, bensì dalla scelta di costruire le cosiddette new town. Vere non-città di cemento in cui si vive solo «uti singuli», e in cui quelle che erano le priorità 'sociali' dello Statuto duecentesco – le piazze, le chiese, le fontane – nemmeno esistono. A quel punto il centro monumentale poteva morire: non serviva più a nulla. Se non a resuscitarlo poi, con calma, per farne un luna park turistico.
Dunque oggi l'Aquila è suo malgrado divenuta il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana che noi storici dell'arte studiamo: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; il rapporto tra monumenti e vita politica; il rapporto tra arte e spazio pubblico.
All'Aquila questa dissoluzione di significato è avvenuta tutta insieme, con un trauma terribile e improvviso. Ma la stessa crisi investe le cosiddette città d'arte italiane: i cittadini lasciano i centri monumentali non perché siano distrutti dal terremoto, ma perché si trasformano sempre più in fondali per i flussi turistici.
Ma se le «città d'arte» perdono i loro cittadini, cessano di essere «città» e divengono solo «arte». E a quel punto gli storici dell'arte si trovano a studiare non più organismi vivi abitati da una comunità, ma cadaveri ormai muti, presi in ostaggio del mercato.
Come singoli studiosi, come corsi di laurea, dottorati di ricerca, dipartimenti, scuole, dobbiamo trovare il modo di mettere la nostra professionalità a disposizione dei colleghi dell'Università dell'Aquila; dei colleghi che insegnano storia dell'arte nelle scuole dell'Aquila, che saranno alle prese con una grande, e cruciale sfida. Dei colleghi delle soprintendenze e della direzione generale, che nei prossimi decenni dovranno guidare il più colossale cantiere di restauro del mondo, prendendo ogni giorni decisioni difficili e dure.
Esistono molti modi per farlo (gemellaggi, scambi, prin, dottorati dedicati...), e non è possibile, né avrebbe senso costringerli in un unica regìa.
Ma è fondamentale che ciò avvenga: da oggi in poi la comunità scientifica degli storici dell'arte non dovrà più lasciare l'Aquila da sola.
Non è, poi, meno importante che la nostra comunità eserciti fino in fondo il suo ruolo civile.
Ed è per questo che concludo con il documento che è stato approvato dai promotori della giornata: lo consegniamo oggi a tutte le autorità e istituzioni presenti, lo diffonderemo su tutti i mezzi di comunicazione e veglieremo sulla sua ricezione.
Lo leggiamo all'inizio dei nostri lavori di oggi: perché non è una conclusione, è una nuova partenza. Anzi, è la rotta della nostra amicizia con l'Aquila.
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