Lo sguardo sereno e un po’ spregiudicato di un uomo venuto dagli estremi confini del mondo ha smascherato il sogno in cui tutti continuiamo a cullarci: le grandi istituzioni della modernità europea sono giunte alla loro fine – certo nel senso che di esse rimangono solo simulacri che continuiamo a venerare con devozione commovente e illusione preoccupante; ma anche in quello di aver portato a buon compimento la loro ragion d’essere. La storia le ha superate, ma Francesco ha reso loro un onore inaspettato convocandole all’edificazione di una più alta qualità umana del contemporaneo. Finalmente, così riconosciute nella promessa virtuale inscritta in questo loro essere in transizione, anziché dover vivere all’ombra di un sospetto costante da parte della Chiesa, esse si sono sentite restituite al tratto più esigente dell’impegno contratto con i cittadini. L’applauso sincero che ha chiuso l’intervento di Francesco al Parlamento Europeo sigilla una reciproca fiducia che mai si era avvertita in forma così esplicita. L’Europa sembra averne fatto immediato tesoro: il lungo incontro dell’unica leadership di cui essa disponga, incarnata dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, con papa Francesco e il segretario di Stato Parolin ne sono l’indice tangibile. Mostrando come la politica e la diplomazia internazionale trovino un riferimento non formale nel tratto pastorale e spirituale che caratterizza il papato di Francesco. La Chiesa cattolica mostra invece ancora ben più di una qualche titubanza; e fatica ad assecondare il vescovo di Roma in questa riscrittura del rilievo pubblico della Chiesa in ragione della sua fedele corrispondenza all’Evangelo.
Non c’è dubbio che Francesco abbia inoculato una salutare dose di profezia nel cuore dell’istituzione ecclesiale. Questo ha dato respiro a tutti. Quasi d’incanto ci è sembrato che potessimo tornare a fare affidamento su di lei, come se la dura esigenza del Vangelo fosse quella cura indefettibile e promettente di cui il mondo contemporaneo, globalizzato e monetizzato, sente di essere in drammatico difetto. Questo gesto ha mandato in fibrillazione l’apparato ecclesiale, perché non c’è istituzione che possa sopportare la profezia nell’ingranaggio centrale della sua macchina. Su questo snodo si gioca una sfida decisiva del papato di Francesco; e siamo in attesa che egli si eserciti in maniera più articolata rispetto a esso. Per fare questo, forse, dovrà ridisegnare la scioltezza della profezia affinché essa possa funzionare non solo davanti ma anche dentro il corpo dell’istituzione. Per uno spirito come quello di Francesco si tratta di un prezzo alto da pagare, quasi innaturale. Ma egli sa che sarà a favore della Chiesa: perché non sia dato solo alla generazione di oggi, ma anche a quelle che verranno, l’opportunità di assaporare l’inedita prossimità dell’istituzione con il Vangelo che la legittima.
Quello di cui abbiamo bisogno, e lo dice uno che naviga a meraviglia nella liberalità evangelica di Francesco, è una leadership ben temperata: che non rinunci di un pelo all’ampiezza di respiro della letizia cristiana di Dio, ma che al tempo stesso sappia condurre l’apparato istituzionale fino al bordo esterno della soglia critica senza mai oltrepassarla. Mettendo magari qualche sogno nel cassetto, imparando di nuovo la virtù del compromesso, ma creando così le condizioni per cui tutti, proprio tutti, possano saltare sulla nave di Pietro e sentirsi protagonisti nell’avventura dell’attraversata. L’urgenza di Francesco è l’aver intuito che il mondo di oggi ha bisogno di un cristianesimo impregnato della cura e della sensibilità di una dedizione di Dio che si getta letteralmente via senza alcuna preoccupazione per sé; mentre invece l’istituzione che custodisce l’immagine di questo Evangelo continua ad attardarsi su se stessa, coltivando la preoccupazione per quello che sarà di lei. Il passo per ricomporre questa diastasi organica del cattolicesimo lo può fare solo Francesco, stante la stanchezza paralizzante che abita l’istituzione: perché così possa essere della Chiesa del Signore anche dopo di lui.
Sono del mestiere e conosco la razza: i teologi sono impavidi solo quando sanno che non pagheranno dazio per la loro impresa; e sono anche un po’ narcisisti nel loro bisogno di sentirsi considerati. Capisco che Francesco si senta distante anni luce da questi atteggiamenti, ma la posta in gioco val bene qualche mal di pancia. Se aspetta che si facciano avanti i teologi, intuendo quello che egli si attende da loro, allora Francesco avrà più possibilità di sedersi a tavola con Godot… Trovare il modo di una loro convocazione, per non abbandonarli al vortice di una perpetua insoddisfazione e di un malcelato rancore, può fare bene alla teologia – ma può anche servire a dare nerbo all’intuizione più audace di questo papa.
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