«Il mondo è a colori, ma la realtà è in bianco e nero». Parola del regista e guru Wim Wenders, in esergo nel catalogo della Biennale Teatro 2024 (Venezia, 15-30 giugno). È stata la 52° edizione del Festival internazionale del teatro in novant’anni di storia, dal 1934 in avanti, l’ultima del quadriennio statutario affidato alla direzione artistica di Stefano Ricci e Gianni Forte (in arte ricci/forte) e la prima per il neopresidente della Biennale, Pietrangelo Buttafuoco. Quest’anno i due direttori hanno scelto il titolo Niger et Albus, termini/mondo che in latino descrivono gli opposti, il nero e il bianco, l’oscurità contro il chiarore.
«Ed è il superamento di questo dissidio – scrivono Ricci e Forte – che porta l’individuo a procedere verso un progresso generale. Medioevo o futuro, arcangelo Michele contro Satana, la dicotomia ci governa. Trascendere e dominare, sviluppare la spiritualità governando le tendenze materiali, è il solo sentiero percorribile».
In effetti, un che di esoterico mistico rituale libertario balena di volta in volta negli spazi teatrali dell’Arsenale dove si sono susseguiti gli spettacoli e le performance, quasi tutti contaminati da altri linguaggi simbolici (video, cinema, arte, musica) e fecondati da energie giovanili più vivaci che nel recente passato. Merito anche del «significativo aumento delle risorse destinate a Biennale College» – ricorda Buttafuoco – il programma di formazione dei nuovi talenti nella regia, drammaturgia, recitazione.
Un che di esoterico mistico rituale libertario balena di volta in volta negli spazi teatrali dell’Arsenale dove si sono susseguiti gli spettacoli e le performance, quasi tutti contaminati da altri linguaggi simbolici e fecondati da energie giovanili
Allora, dove conduce il «sentiero» del teatro? Di certo si perde nel tempo, procede a zig-zag fra antichità e presente, fra testi classici e rivisitazioni postmoderne, secondo la lezione di Luca Ronconi che fu tra i maestri del duo ricci/forte come di Ottavia Piccolo, spettatrice appassionata degli appuntamenti veneziani. Così, Tre sorelle di Anton Cechov, dramma teatrale di inizio Novecento, viene «riscritto» e ibridato con le suggestioni di Virginia Woolf dalla compagnia romana Muta Imago, la regia di Claudia Sorace e la drammaturgia e il suono di Riccardo Fazi. Ecco le protagoniste Olga, Maša e Irina: sono rinserrate in una stanza della memoria e nel culto del padre generale scomparso da poco, sferzate dalle luci stroboscopiche che le fanno emergere dal buio nell’incipit dello spettacolo. La tirannide del Tempo le logora più che divorarle: a tormentarle è ciò che avrebbe potuto essere e non è. «Affiorano alla ribalta» – per dirla giusto con Cechov – i rimpianti e i dolori, le speranze segrete e gli amori, le alleanze e le lacerazioni in famiglia, le ferite e le tenerezze delle tre giovani donne che inscenano una danza disperata e infine vana. «A Mosca, a Mosca…» non arriveranno mai. Resta però la possibilità di trasformarsi in loco, nella «provincia dell’uomo» di cui scrisse Canetti, di sottrarsi a se stesse e alla propria corporeità roteando come dervisci, di rinnegare infine la nostalgia (anche quella del futuro) per immaginarsi diverse. Un allestimento molto suggestivo, ai confini del teatrodanza, grazie alle bravissime interpreti Federica Dordei, Monica Piseddu e Arianna Pozzoli.
Un’altra donna, un’altra passione e un’altra sconfitta risuonano in Medea’s Children, ideato e diretto dallo svizzero Milo Rau, quarantacinquenne star della scena europea, nonché sociologo, filologo e giornalista, un talento eclettico da ex allievo di Tzvetan Todorov e Pierre Bourdieu, approdato di recente alla direzione del teatro fiammingo NTGent, a Gand in Belgio. Poco prima del Covid, Milo Rau realizzò Il nuovo Vangelo per Matera Capitale europea della cultura 2019, ripercorrendo la via Crucis pasoliniana nei Sassi tra documentazione e finzione, e affidando il ruolo di Gesù al sindacalista africano Yvan Sagnet, assai impegnato nella lotta al caporalato e allo sfruttamento dei lavoratori stagionali. Stavolta Rau «decostruisce» la tragedia di Euripide e simula che lo spettacolo sia un talk show su Medea orchestrato da un attore adulto e animato da sei bambini ironici e disincantati. Presto però il sipario si apre e lo stralunato «talk» acquisisce la profondità di campo del mito nel confronto con il caso di cronaca di una migrante maghrebina che ha ucciso i suoi cinque figlioletti, la sua vendetta contro il marito prossimo a lasciarla. La parola va a loro, alle vittime sacrificali di un lessico famigliare giunto al grado zero, al sangue più forte di ogni lingua, in una favola crudele che vale pure da «Bignami di Storia del Teatro». D’altro canto, la ritualità omicida di Medea, la quale chiama a sé i figli a uno a uno e li sgozza con un coltellaccio, ricorda inevitabilmente i crimini odierni, evoca Gaza e la nostra indifferenza suprema di fronte alle immagini della morte in diretta. Applauditissimo all’Arsenale, Medea’s Children è struggente e coinvolgente, sebbene per certi versi «discutibile», perché rimette in gioco il paradigma essenziale dell’osservazione: fino a che punto e con quali modalità possiamo mostrare – e guardare – senza essere complici del maleficio?
Medea’s Children è struggente e coinvolgente, sebbene per certi versi «discutibile», perché rimette in gioco il paradigma essenziale dell’osservazione: fino a che punto e con quali modalità possiamo mostrare – e guardare – senza essere complici del maleficio?
Contro l’indifferenza agiscono i pluripremiati australiani di Back To Back Theatre concepito nel lontano 1978 da un gruppetto di artisti disabili, al loro debutto in Italia per ritirare il Leone d’oro della Biennale Teatro. La compagnia mette in scena (o «toglie di scena», secondo il paradosso caro a Carmelo Bene) l’idea della «normalità» con le sue perversioni e i riflessi condizionati/condizionanti in Food Court, un’opera aperta tra performance e concerto grazie alla collaborazione della jazz band The Necks. Una donna si ribella alla costante umiliazione della sua fragilità cognitiva sul palcoscenico spoglio di qualunque oggetto e immerso nella luce. Mentre il Leone d’argento è andato al collettivo britannico-tedesco Gob Squad, autore sia della installazione Elephants in Rooms a Forte Marghera di Mestre, centrata sulla auto-contemplazione dei ricchi, sia di Creation (Pictures for Dorian) in cui i performer, citando il Dorian Gray di Oscar Wilde, si/ci chiedono perché desideriamo tanto essere guardati...
Narcisismo contro realtà, dunque, la drammatica realtà che irrompe in Blind Runner del drammaturgo iraniano Amir Reza Koohestani, ove s’intrecciano i destini di tre persone intorno alla prigionia per motivi politici e allo spirito della Libertà, la bella addormentata del mondo d’oggi. Guarda caso si intitola Sleeping Beauty il testo di Carolina Balucani, vincitrice l’anno scorso della Biennale College Teatro – Drammaturgia Under 40, rappresentato in anteprima con la regia di Fabrizio Arcuri: un viaggio al termine dell’inconscio di adolescenti altrimenti ai margini di tutto, dolenti e silenti. «Vanno a dormire anziché entrare nell’età adulta», finché un sogno non li restituisce alla vita.
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