La tanto attesa pronuncia della Corte costituzionale sull’Italicum conferma che siamo ormai la Repubblica dei supplenti, con tutti i problemi che ciò comporta. La decisione della Consulta è infatti il frutto di una situazione in cui le si è chiesta una missione impossibile: inventarsi per via giuridica una legge elettorale che rispetti gli obiettivi che al sistema politico sono assegnati dalla Carta costituzionale.
Il guaio è che quegli obiettivi sono materia politica (nel senso alto del termine, non in quello volgare in cui spesso viene intesa oggi) e che la loro valutazione «giuridica» è possibile sino a un certo punto, perché comporta giudizi di valore e di opportunità che sono dinamici e niente affatto validi al di sopra di qualsiasi discussione. Rappresentanza, governabilità, conciliazione fra diritti individuali e diritti collettivi non sono nozioni che esistono belle e formate in qualche empireo, ma sono concetti che mutano storicamente e che hanno varie declinazioni possibili e varie forme di contemperamento fra cui scegliere. Se questa scelta viene demandata a una sede «tecnica» come dovrebbe essere la Corte, finiamo per dare ragione alle obiezioni che già in costituente sollevarono Togliatti e Nenni (per citare solo due nomi) contro la creazione di un organo che avrebbe finito per essere una specie di terza Camera, per di più non eletta.
Dal lato opposto bisogna però tenere conto che in tempi di vuoto di potere e in presenza di situazioni assai difficili sia sul piano interno che internazionale coloro che si trovano in posizioni di grande responsabilità si sentono in dovere di non concorrere ad aggravare lo stato di difficoltà. Così è stato ed è per il presidente della Repubblica, ma così è anche per i membri della Corte.
La Consulta si è trovata in un certo senso prigioniera di questo complesso di fattori e ha fatto quel che ha potuto per non istigare lotte politiche scomposte (immaginiamo cosa sarebbe successo se avesse deciso, come pure era logicamente possibile, di dichiarare che non si pronunciava su una legge mai applicata) e al tempo stesso per non creare un vuoto legislativo impossibile da coprire (dichiarando incostituzionale tutta la legge non si sarebbe saputo quale legge precedente sarebbe stata applicabile). Cosa veramente abbia detto la Corte per la verità ancora non lo sappiamo: il comunicato stampa e il dispositivo sono troppo scheletrici, perché in questo caso conta fino a un certo punto cosa è stato dichiarato incostituzionale, mentre conta molto di più «perché» si è giunti a quelle conclusioni. Infatti è da quelle motivazioni che si capirà, per esempio, se il ballottaggio per il premio di maggioranza è comunque incostituzionale o se può non esserlo ove venga previsto con norme diverse. Altrettanto vale per la questione delle pluricandidature, tenendo conto che il ricorso al sorteggio viene suggerito come soluzione residuale, oppure per i capi lista bloccati. che sarà interessante vedere perché sono stati giudicati compatibili con il nostro impianto costituzionale.
È da queste motivazioni che la classe politica potrebbe trarre elementi per procedere al suo compito, la predisposizione in Parlamento di una legge elettorale che abbia una logica di sistema e non semplicemente quella di essere, come più o meno tutte le leggi dal Mattarellum in poi, una «furbata», mi si perdoni l’espressione, per risolvere i problemi che la politica non sa affrontare: l’assenza di culture politiche prevalenti, la responsabilità degli eletti nell’essere rappresentanti dell’interesse collettivo e non delle loro tribù di provenienza, il meccanismo per giungere a decisioni politiche superando i giochetti di veto che impazzano in un panorama infestato da populismi di ogni genere.
La Corte non poteva far altro che ridurre all’osso la questione: o trovate una via per raccogliere subito un consenso significativo che giustifichi un premio di maggioranza (e infatti ha lasciato il premio alla lista che raggiunge il 40% dei voti) o vi rassegnate ad avere un proporzionalismo che vi costringerà poi a trovare in Parlamento le mediazioni per rappattumare in qualche modo una maggioranza di governo. Questo, a mio modesto avviso, è il senso ultimo e banale di quanto deciso: il resto è contorno. Non deve essere stato neppure semplice per la Corte arrivare a questa conclusione visto il tempo che ci ha messo: un segnale che probabilmente anche al suo interno qualche ambizione di «dettar legge» oltre questi limiti c’è stata.
Il finale del comunicato della Consulta che sottolinea che la legge così come esce dal vaglio è immediatamente applicabile suona quasi come una provocazione: volevate la bicicletta, ve l’abbiamo data, vediamo se siete in grado di pedalare (o di farvi una bicicletta nuova).
I partiti sembra si stiano buttando sui pedali non dando esattamente prova di grande arguzia. Speriamo che qualcuno capisca che è il sistema che ha problemi nel complesso. Per esempio il bicameralismo paritario che emerge chiaramente dalla situazione come un doppione, perché si deve forzare che si eleggano due Camere eguali come composizione politica altrimenti non si governa.
Ma questo è un altro discorso che non può essere risolto da avvocati che citano i loro barbieri e neppure da giudici costretti a supplire le incapacità di chi fa le leggi anziché a valutarne la aderenza alla Carta costituzionale.
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