La cosiddetta “borghesia riflessiva”, blocco sociale portante (e perdente) della terza via del riformismo all’italiana, è uscita con le ossa rotte dalle ultime elezioni politiche, perché non ha saputo offrire soluzioni culturali e politiche credibili alla società italiana, perdendo, così, la leadership del Paese. L’accusa che viene comunemente mossa all’establishment – oramai quasi completamente identificato, sul piano politico, con il Pd – è di essersi allontanato dalla realtà, proponendo della stessa una “narrazione” che sottovaluta le effettive difficoltà dei cittadini comuni. Difficoltà sconosciute alla classe dirigente uscente, o almeno in tal modo percepite nel dibattito pubblico. La frattura creatasi è tanto più evidente dal momento che molti “competenti” beneficiano della protezione che negano agli altri, ai quali propongono il luogo comune della società del merito, in una realtà dove il gioco della concorrenza tra talenti è, però, con tutta evidenza, distorto. Ad esempio, sul fondamentale tema del diritto allo studio, chi promuove idealmente l’università pubblica per garantire pari opportunità al ricco e al povero, fa in modo che i propri figli frequentino costose università private. Il tema è dunque quello del diritto allo studio, e dell’università in particolare.
Pochi giorni fa, con un giovane laureato in economia, attualmente impiegato all’estero presso un’importante banca d’affari, abbiamo avuto una stimolante discussione sulle – presunte – scarse capacità formative del sistema universitario italiano. Il giovane interlocutore, che qui chiameremo Matteo, si è mostrato molto critico verso i suoi coetanei, abituati alla vita comoda, “parcheggiati” nell’università sotto casa, poco disposti a sacrificarsi per puntare ad obiettivi ambiziosi. Alla fine della conversazione, però, viene fuori che Matteo si è laureato a Londra e specializzato a New York. Con una valutazione approssimativa, si può agevolmente supporre che la sua “riflessiva” famiglia abbia investito più o meno 250.000 euro. Senza dubbio, Matteo ha ricevuto un’eccellente formazione specialistica, ma che percezione ha maturato della realtà durante il suo percorso di studi? Non certamente quella di una società multiforme in cui le disuguaglianze aumentano e le famiglie degli studenti con meno possibilità scivolano su punti di partenza sempre più lontani. Se, però, un giovane può permettersi di ignorare questa realtà (almeno finché non si ritrova a infoltire le fila della classe dirigente), la politica non può permettersi di farlo.
E ciò in quanto il ruolo fondamentale della politica è, o dovrebbe essere, quello di livellare le condizioni di partenza di tutti gli studenti universitari. Ma siamo sicuri che quest’obiettivo possa essere raggiunto, oggi, “a costo zero”? Il sistema universitario italiano continua a “produrre” laureati con livelli di competenza e preparazione paragonabili a quelli di qualsiasi altro Paese industrializzato. Nonostante disponga di risorse sensibilmente inferiori, per effetto del disinvestimento pubblico attuato dai governi di ogni colore politico dell’ultimo decennio.
Si sceglie l’università per avere migliori opportunità di ingresso nel mondo del lavoro. E le opportunità crescono per gli studenti che possono permettersi di allontanarsi dalla propria residenza per frequentare i migliori atenei. Chi, non avendo questa possibilità, completa gli studi nella città di origine, in molti casi avrà minori opportunità. Una “sfortuna” dalle conseguenze limitate quando si nasce nel centro dinamico del Paese, una barriera all’ingresso nel mondo delle opportunità pressoché insuperabile quando i luoghi di origine appartengono alla periferia culturale ed economica.
Un giusto disegno dell’università italiana deve tenere in massima considerazione le potenzialità redistributive del sistema formativo. Soprattutto in un Paese come il nostro, dove, come risulta dai recenti rapporti di Almadiploma e Almalaurea, scuola e università hanno perso il ruolo di ascensore sociale svolto nei “gloriosi trenta”. A tal fine bisogna prediligere un modello di formazione universitaria in grado di garantire a tutti gli studenti pari dignità in termini di qualità della docenza e delle strutture, servizi alla didattica, diritto allo studio, servizi di placement. Meno risorse, finora, hanno significato: rette elevate (secondo l’Ocse tra le più alte subito dopo Uk e Olanda), meno borse di studio (solo il 12% degli studenti beneficia di una borsa di studio, in Francia circa il 25%, in Germania il 30%), meno servizi agli studenti e un progressivo deterioramento dell’offerta formativa complessiva, che andrebbe, comunque, in alcuni casi razionalizzata (si vedano, ad esempio, Svimez e Gianfranco Viesti).
Stando così le cose, è di tutta evidenza che senza risorse aggiuntive non si potranno più garantire i livelli minimi di servizi per gli studenti e aumenteranno le disparità. È perciò auspicabile un intervento straordinario del governo che punti ad incrementare sensibilmente la dotazione finanziaria dell’università italiana. Si tratta di un dovere della politica. Tanti nostri giovani di talento vivono in realtà “normali” molto distanti da quella del giovane Matteo. Distanze che possono essere ridotte solo con l’impiego di nuove risorse e non con, poco credibili, enunciazioni di principio. Molti di questi giovani, poi, non hanno l’ambizione di lavorare in una banca d’affari in Svizzera, non possono permettersi di studiare in una città diversa dalla propria (figuriamoci all’estero), né concedersi il lusso di coltivare progetti ambiziosi. Rimane naturalmente importante e doveroso per l’università saper indicare obiettivi alti, instillare nelle giovani generazioni ambizioni nobili, ma deve esserle consentito di farlo con mezzi economici e organizzativi adeguati. Incrementare l’investimento nell’università non solo è urgente per le esigenze del nostro sistema economico e produttivo ma è, soprattutto, vitale per la sopravvivenza del nostro sistema civile e democratico. Costruire una società giusta vuol dire anche questo.
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