Il verdetto è sempre lo stesso e, negli ultimi anni, si è diffuso anche con più forza: tra il 1989 e il 1990 la Germania Ovest avrebbe «colonizzato» l’Est e calpestato i suoi rapporti politici, sociali, economici e culturali con la creazione dei «nuovi Länder», quasi fosse un’occupazione. Questa tesi, così come la tesi opposta, è un’esagerazione: la Germania sarebbe diventata sempre più «orientale», dunque inaffidabile e autoritaria. La tranquillità del consenso, tipica della Repubblica di Bonn, sarebbe finita con l’unificazione; la Repubblica di Berlino, al contrario, sarebbe stata più confusa e difficile da governare.
A queste tesi – l’«occidentalizzazione» e l’«orientalizzazione» – vorrei contrapporre piuttosto, attraverso l’analisi delle differenze, strutturali e mentali, che resistono all’interno della Germania, una «tesi della differenza». A partire da due aspetti: retrospettivamente con l’elaborazione del passato nazionalsocialista, diversa a Est e Ovest, e in prospettiva con un’analisi politico-sociologica delle restanti differenze.
«Non è forse finita la discussione sul passato? Che cosa possiamo fare se i nostri nonni o bisnonni hanno commesso crimini nel Terzo Reich?». Così, di tanto in tanto, i più giovani chiedono di mettere fine al passato nazista. A queste obiezioni aveva già risposto Hans Magnus Enzensberger: occorre occuparsi anche di riparare la fognatura, se i bisnonni l’hanno costruita e poi distrutta. Non ci si può sottrarre ad alcune responsabilità, anche se la generazione dei colpevoli è scomparsa.
Oggi non è più questione di «colpa». Piuttosto, bisogna affrontare il modo in cui i crimini del nazionalsocialismo sono stati elaborati in due sistemi politici opposti, che ancora oggi esercitano una diversa influenza: una sorta di «elaborazione dell’elaborazione». Non per caso politici di Alternative für Deutschland (AfD) nati nella Germania Ovest, come Alexander Gauland e Björn Höcke, invocano una svolta a 180 gradi e definiscono la tematizzazione dell’Olocausto una vergogna nazionale. Entrambi speculano sull’eco di queste proposte, soprattutto a Est, e ottengono così quella protesta che Franz Josef Strauß riuscì solo ad accarezzare nel 1969, quando chiese di «farla finita con l’infinita elaborazione del passato come perenne compito sociale».
Come e perché sono nate in Germania «le due culture della memoria»? Torniamo all’«ora zero»: nel 1945 il Reich tedesco era distrutto, materialmente e moralmente, il filo spinato e i muri lo dividevano in due campi ostili. Nel corso della Guerra fredda, gli avvenimenti precedenti al 1945, compreso l’Olocausto, furono, in certa misura, congelati; solo negli anni Ottanta sono ritornati nella coscienza generale. Fino ad allora non ci si sentiva liberati, né a Ovest né a Est. Il discorso sull’8 maggio 1945 come giorno della Liberazione del presidente federale Richard von Weizsäcker provocò ancora indignazione nel 1985. In Occidente si preferiva parlare di «collasso», a Est il termine «liberazione» offendeva l’azione degli occupanti sovietici.
Entrambe le parti hanno evitato a lungo di occuparsi del passato. I bombardamenti, i tanti caduti e i mutilati di guerra, le riparazioni oppressive, una non così decisa denazificazione, il processo di Norimberga contro i principali colpevoli: come castigo sembrava sufficiente. In tutta la Germania la rimozione fu una reazione quasi naturale; nel 1983 il filosofo Hermann Lübbe descrisse questo atteggiamento quotidiano – conoscere i colpevoli, ma non voler parlare apertamente delle loro azioni – come «silenzio comunicativo». È stata poi la generazione del 1968 a pretendere una sorta di auto-analisi sulla continuità personale, istituzionale e culturale tra le due esperienze dopo l’ora zero.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 5/20, pp. 767-786. Il fascicolo è acquistabile qui]
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