Ormai passa quasi inosservata la notizia del tracollo delle sale cinematografiche italiane, a indicare prima di tutto che la sala è sparita (da tempo) dal nostro immaginario collettivo. Mentre in Paesi europei come Spagna, Germania e Francia si è tornati a incassi e presenze analoghe a quelli di prima della pandemia, in Italia i dati Anica indicano la scomparsa dei cinema: -71% (più o meno lo stesso valore per incassi e presenze). Non si va più al cinema, fine dello spettacolo. Prima delle esequie, vale però la pena fare due considerazioni.

Di certo la pandemia ha inferto un colpo di grazia a un sistema già fragile, di sicuro abbiamo avuto norme più rigide e più prolungate sugli accessi in sala rispetto ad altri Paesi europei, la pandemia ha colpito pesante in Italia e quindi è normale avere paura dei luoghi chiusi (non dei ristoranti però che appaiono a uno sguardo superficiale sempre affollati), è vero, al cinema ci andavano soprattutto gli anziani e quindi ora quel pubblico è perso forse per sempre. Ma queste sono le contingenze, assomigliano ai due colpi di rivoltella di Gavrilo Princip, le cause profonde sono probabilmente altrove. In primo luogo l'esercizio, ossia le sale, non hanno rinnovato, assieme alle tecnologie, anche le modalità di proposta.

Gli esercenti in larga misura non hanno ripensato al loro ruolo di imprenditori culturali, adagiandosi su un sistema obsoleto: attacco due manifesti e aspetto il pubblico

Gli esercenti in larga misura non hanno ripensato al loro ruolo di imprenditori culturali ma, in un momento di radicale cambiamento nella fruizione degli oggetti cinematografici determinato dall'espandersi di piattaforme e visione online, si sono adagiati su un sistema obsoleto: esce un film, lo chiedo all'agente di zona (spesso imploro che mi venga dato il film “di cassetta”), attacco due manifesti e aspetto il pubblico. Questa era, ed è ancora, la modalità di uscita dei film in sala che quindi è centralizzata perché gestita dai grossi distributori che controllano direttamente le sale o i circuiti, e allo stesso tempo dispersa sui territori perché sottoposta al vaglio degli agenti di zona che stabiliscono tempi di permanenza in sala, città, paesi e cinema dove i film devono uscire, riducendo quindi l’autonomia degli esercenti, soprattutto di quelli che hanno un solo schermo (sempre meno a dire il vero perché inevitabilmente il modello delle sale multi-schermo, da tempo affermato in Europa, ormai anche da noi è apparentemente l’unico modello possibile).

Non serviva la pandemia per rendere manifesta la fragilità anti storica di questo sistema. Questo tipo di esercente, attendista e sottomesso alle scelte compiute dai distributori e dagli agenti di zona, non può più esistere in un settore che propone ogni giorno migliaia di nuovi prodotti, che costruisce la fidelizzazione del pubblico su serialità, visione frammentata, multimedialità. Poche sale, soprattutto quelle di comunità, piccole, decentrate, militanti, hanno rivisto il modello di programmazione creando veri e propri palinsesti quotidiani per seguire le segmentazioni del pubblico, le fasce orarie, i gusti di nicchia. Inutile pensare che un pubblico abituato alle pantofole sul divano rincorra in sala un blockbuster che, dopo due settimane, vedrà proprio stando seduto su quel comodo divano. Queste sale “di comunità”, però, faticano a fare rete travolte come sono dalle mille difficoltà della gestione quotidiana fatta di scarsa reperibilità dei titoli non main stream (e con questo si intendano anche i cosiddetti film d’essai che, nati per essere oppositivi ai modelli dominanti, sono finiti per essere un marchio che identifica i film che rispondono a specifiche necessità merceologiche: partecipazione vistosa a grossi festival, autori di grido, premi ecc.).

Ma il sistema non è mai stato solo degli esercenti. Ben più pesanti sono le responsabilità della distribuzione italiana che ha bloccato per anni le sale con un bizantino meccanismo di circolazione copie

Ma il sistema non è mai stato solo degli esercenti. Ben più pesanti sono le responsabilità della distribuzione italiana che ha bloccato per anni le sale con un bizantino meccanismo di circolazione copie basato sulle agenzie territoriali rimasto sostanzialmente fermo agli anni Sessanta. Imporre i prodotti, fare cartelli di distribuzione, schiacciare la concorrenza ha a lungo andare (come sempre accade) desertificato la proposta. La più che utile risposta che molti distributori diedero negli ultimi anni dello scorso secolo al dominio dei grandi distributori americani o “commerciali” costituendosi in consorzi autonomi di diffusione si è col tempo irrigidito creando di fatto nuovi monopoli di distribuzione. È inevitabile che, cambiando così radicalmente il sistema di fruizione dei film grazie alla nascita delle piattaforme, i vecchi e nuovi monopoli distributivi non abbiano più un centrale interesse economico nell’uscita dei titoli in sala e quindi, dovendosi garantire incassi cospicui,  migrino altrove, lasciando dietro di loro le macerie di un sistema che hanno contribuito a impoverire.

Naturalmente una fetta di responsabilità ce l'ha anche il sistema produttivo sostanzialmente ingessato in un duopolio (ministero/Rai) che di nuovo rimpicciolisce la proposta, la condiziona dentro uno o due modelli estetici dominanti, limita la sperimentazione e la fantasia, essenziali doti del cinema di ogni tempo e luogo. 120 film di finzione prodotti in Italia ogni anno non trovano per la maggior parte nessun luogo di visibilità perché sono ridondanti, formattati, tutto sommato superflui. Nel settore produttivo manca ossigeno e dinamismo. Basti pensare che a fronte di circa 700 milioni di euro erogati ogni anno dal ministero italiano corrisponde più o meno la stessa cifra al Cnc francese: ma lì ci lavorano 450 funzionari, qui circa 80. È vero che quella francese è un’agenzia autonoma e in Italia invece si tratta di dipendenti ministeriali ma anche l’aver affidato all’Istituto Luce (simile per “statuto” al Cnc) la gestione tecnica dei contributi non ha snellito il sistema e, a oggi, non lo ha reso meno opaco. È chiaro che le produzioni arrivano in sala (o dovunque arrivino) rallentate, in ritardo, già impolverate. Unica eccezione, come sempre, il documentario (inteso in una accezione vasta) che, muovendosi su cifre basse, quasi misere (la Rai investe la cifra minima di circa 4 milioni sui doc) si inventa modelli di produzione e diffusione di nicchia, porta a porta, garibaldini, ma almeno vitali.

Ora si chiede una legge che imponga finestre obbligatorie di esclusiva proiezione dei film in sala vedendo in questo una tutela dell'esercizio cinematografico e dei pochi schermi rimasti

Ora si chiede una legge che imponga finestre obbligatorie di esclusiva proiezione dei film in sala vedendo in questo una tutela dell'esercizio cinematografico e dei pochi schermi rimasti (erano 3.600 prima della pandemia, ne sono già morti 500: soprattutto al Sud interi territori non sanno più nemmeno cosa sia, un cinema). Per legge si vuole costringere il cinema a stare dentro una scatola scomoda e vecchia. La Disney nemmeno li fa più uscire in sala i suoi film, Netflix usa la sala solo come vetrina per film pensati già per la sua piattaforma. Come si può pensare che una norma modifichi la trasformazione del sistema? Il cinema (quello con le poltroncine, il buio e il raggio di luce che fa zittire il pubblico) è uscito dalla testa degli italiani, vedremo cosa prenderà il suo posto.