La morte di Carlo Vanzina ha generato una situazione tipica da film di Carlo Vanzina: la polarizzazione istantanea delle posizioni e delle figure. Complice l’inevitabile semplificazione di ragionamenti tipica dei social, si sono formate immediatamente le squadre dei sostenitori e dei detrattori (questi ultimi, a dire il vero, assai in minoranza). E, come nei film dei Vanzina, la rappresentazione dei contrasti assume toni caricaturali, propri dei contesti in cui la distinzione sociale ha contorni incerti e deve quindi continuamente essere rimarcata, messa in discorso, trasformata in performance di esclusione o integrazione.

Un tempo la critica, alle prese con film o registi difficili da inquadrare in chiave estetica, se la cavava con una formula elegante: “Ha un certo interesse sociologico”. Tradotto in maniera un po’ tendenziosa: “È brutto, ma qualcuno (non certo io, per carità) dovrebbe chiedersi perché ha successo”. Fare questo con il cinema di Carlo Vanzina è difficile per vari motivi, così come è impossibile operare una rivalutazione del regista in chiave cinefila, come genio incompreso la cui immagine può essere risarcita da un sottile lavoro interpretativo. Uno sguardo storico può forse aiutare a mettere ordine.

Il cinema dei Vanzina ha senz’altro un profondo interesse sociologico, come scrive tra gli altri Guia Soncini in un bel pezzo uscito per “Studio”, ma solo a patto che si riduca la quarantennale carriera dei fratelli a un gruppo di film usciti tra l’inizio degli anni Ottanta e i primi anni Novanta: a spanne, dal 1981 dei Fichissimi (notevole adattamento di Romeo e Giulietta all’ambiente della Milano che non vuole più essere working class, in cui il fruttivendolo con l’Ape Piaggio si immagina imprenditore del ramo agroalimentare) al 1992 di Sognando la California (road movie già, a sua volta, versione matura di Vacanze in America, 1984). Al centro c’è ovviamente il film simbolo della loro filmografia e del decennio, Sapore di mare (1983). Si tratta di una ventina di film, su sessantasei regie totali tra cinema e televisione, in cui, tolta una quota di esperimenti curiosi (digressioni in costume, sentimentali, di impegno civile), emerge una trama comune: la messa in scena e in ridicolo delle aspirazioni della classe sociale più sbeffeggiata e incompresa dal cinema italiano, vale a dire la piccola borghesia in piena fase di legittimazione. Di quel gruppo e di quel decennio i Vanzina hanno riprodotto con felice precisione luoghi e riti (le vacanze a Forte dei Marmi, in America, a Cortina), tipi umani (le finte bionde, gli yuppies, il ras del quartiere) e soprattutto proterve aspirazioni di elevazione sociale. E non è un caso che chi, come Soncini, rimarca l’aspetto di satira sociale di questi film lo faccia riferendosi “ai Vanzina” più che al loro cinema, a due “signori” apparentemente conniventi, ma nei fatti distantissimi per educazione, cultura e provenienza familiare dall’universo di cumenda e torpigna dei loro film.

Ma la capacità di intercettare l’aria che tira, accompagnata a un ampio successo di pubblico, è, come si diceva, temporalmente limitata: negli ultimi vent’anni Carlo Vanzina ha diretto ventinove film, solo tre dei quali hanno superato il milione di spettatori, e negli ultimi dieci anni nessuno ha superato gli 870.000 spettatori. Il legame tematico con quel mondo di arricchiti, cafoni ripuliti e arrivisti si è via via fatto più occasionale, o declinato tramite il registro della nostalgia, non solo per un mondo trascorso (quella c’è sempre stata), ma per un cinema – il loro – passato: almeno dieci dei film degli ultimi vent’anni derivano da precedenti film della coppia o, più raramente, di altri, di cui costituiscono sequel, recasting, omaggi o riproposizioni. Il campionario è vasto: da A spasso nel tempo: l’avventura continua (1997) a Eccezzziunale… veramente: capitolo secondo… me (2006), da Il ritorno del Monnezza (2005) a Il pranzo della domenica (2003), da Sapore di te (2014) a Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata (2011).

Il cinema di Carlo Vanzina è totalmente irrecuperabile in chiave cinefila. Anzi, tanto più rispecchia un mondo, tanto meno può essere amato da chi nel cinema cerca lo sguardo capace di costruire o deformare la realtà, e non di riprodurla mimeticamente: la cinefilia italiana, nelle sue versioni più oltranziste, può rivalutare, stando al comico, Nando Cicero o Mariano Laurenti, i decamerotici con Edwige Fenech e le liceali di Gloria Guida, lo spreco immotivato di grandangoli e di piani sequenza, ma non gli orgogliosamente piatti Vanzina. I film dei Vanzina non conoscono le miserie del cinema popolare italiano, ma nemmeno le imprevedibili accensioni stilistiche che talvolta da quelle miserie si rivelano. Non sfruttano intensivamente i filoni, ma sono fedeli al macrogenere fondamentale del nostro cinema popolare: la commedia di costume, nella variante che privilegia la definizione dei caratteri alla costruzione dell’intreccio (il padre Steno, appunto, e non Monicelli), l’assemblaggio di attrazioni precostituite quali gag, canzoni o tormentoni di arte varia all’integrazione di personaggi a tutto tondo in racconti più o meno organici (gli anni Cinquanta di Vacanze a Ischia e non i Sessanta di Io la conoscevo bene). Nei grandi successi diretti da Carlo Vanzina non si trova l’eccesso stilistico del cinema di genere italiano degli anni Settanta o dei primi Ottanta: non ci sono gli zoom a schiaffo del poliziesco, le incoerenze narrative del thriller, le esibizioni gratuite di numeri ed effetti del western o dell’horror. C’è invece, quasi sempre, grande pulizia stilistica: inquadrature chiare, recitazione funzionale, ricorso sistematico a elementi in grado di suggerire ambiente e situazione, dalla musica alle battute.

E il trash, quindi, qualunque cosa ciò voglia dire? Falso problema: i film di Carlo ed Enrico Vanzina, soprattutto i grandi successi della metà dei Novanta, da S.P.Q.R. 2000 e 1/2 anni fa (1994) a A spasso nel tempo (1996), sono spesso affollati di gag truci, coprolalia, sessismo, omofobia, ma non è questo il loro aspetto qualificante, soprattutto se li si mette a confronto con altri film simili e contemporanei o immediatamente successivi. I Vanzina hanno codificato modelli – il film vacanziero su tutti – che altri cineasti hanno poi declinato accentuandone i caratteri più espliciti e ricavandone un successo superiore agli originali. La stagione d’oro del cinepanettone coincide per esempio con i film diretti da Neri Parenti e prodotti dalla Filmauro ed è di parecchio successiva all’originario Vacanze di Natale. Detto ancora più apertamente: altri hanno avuto soldi e successo da film per cui i Vanzina sono stati additati a responsabili dello sfascio cinematografico nazionale.

Che cosa ci dice allora, oggi, il cinema di Carlo Vanzina? Per esempio ci indica che tutti, amici e nemici, cinefili e non, facciamo una gran fatica a fare i conti con questa forma orgogliosamente media di spettacolo: fatta pensando al pubblico e non ai connoisseurs, semplice nella costruzione del racconto, professionale nella realizzazione, abile nella creazione di cast corali che mescolano attori navigati ed esordienti o presenze eccentriche, asciutta dal punto di vista espressivo fino a sembrare sciatta. Se ci fosse lo spazio per articolare delle provocazioni si potrebbe aggiungere: semplice e sciatta come quella dell’altro regista chiave degli anni Ottanta e Novanta in questo Paese, Nanni Moretti.

I lavori per la televisione, dalla miniserie Anni ‘50 (1998) alle quattro stagioni di Un ciclone in famiglia (2005-2008), rappresentano da questo punto di vista non una parentesi, ma un prolungamento di quel modello, costantemente ricercato e sempre più difficile da replicare. Le figure di una stagione, come dimostra il celebre, splendido finale di Sapore di mare, possono ripresentarsi con gli stessi abiti e negli stessi luoghi, ma difficilmente riusciranno a ristabilire, se non la magia, almeno l’efficacia del primo incontro.