Questo articolo fa parte dello speciale La guerra in Ucraina
“Uno degli aspetti della tragedia è che non ci si può permettere né di essere deboli né di essere forti e si è costretti ad andare avanti tra le due opzioni in modo incerto”. Queste parole, con le quali il filosofo francese Edgar Morin riassume la complessità del nostro agire davanti al dramma in Ucraina, individuano anche un dilemma esistenziale per l’Unione europea: può esistere un modello europeo in un mondo sempre meno multilaterale? In altre parole, è possibile per l’Ue continuare a immaginarsi come potenza di valori che proietta i suoi princìpi e la sua “forza” attraverso le regole, quando queste sono sempre meno condivise?
Per rispondere, bisogna ricordare che l’Unione europea di oggi nasce con il Trattato di Maastricht nel 1992, in un mondo unipolare in cui l’egemonia statunitense spianava la strada al multilateralismo economico. La gran parte del mondo appariva ormai al riparo da conflitti tali da riportare a una logica di blocchi contrapposti o mettere in discussione le interconnessioni economiche globali. Il paradigma allora dominante postulava che l'espansione globale del primato delle regole di mercato potesse rappresentare la base migliore su cui costruire una governance mondiale condivisa, aggirando lo stallo politico del sistema onusiano, ostaggio dei veti in seno al Consiglio di sicurezza.
Gli obiettivi dell'integrazione europea e quelli del multilateralismo – regole comuni, fiducia nell’apertura e ricerca di pace e stabilità attraverso le interdipendenze – hanno finito per sovrapporsi e riflettersi nell’identità stessa dell’Ue. L’Unione creata a Maastricht, infatti, ha l’ambizione di essere una potenza gentile. Una potenza, cioè, che difende e promuove i suoi valori attraverso le regole – e non la forza militare – per cui quanto più queste sono condivise e diffuse, tanto più si farà sentire la sua “forza normativa”. Se non universali, allora, tali regole devono almeno non essere messe in discussione da nessuno dei grandi attori.
L'Unione creata a Maastricht ha l'ambizione di essere una potenza gentile. Una potenza, cioè, che difende e promuove i suoi valori attraverso le regole, non con la forza militare
Perseguendo la visione di un mondo fondato su regole sempre più condivise, l’Ue ha compiuto scelte che le hanno impedito di dotarsi di politiche strategiche per tutelarsi adeguatamente nei confronti del resto del mondo. Una politica di concorrenza europea miope rispetto alle esigenze di politica industriale ne è un esempio, ma non è l’unico. Negli ultimi anni, la cronaca europea è ricca di ammissioni sulla necessità di adeguarsi ad un mondo diverso da quello “previsto”. È di poche settimane fa l’accordo tra Consiglio e Parlamento sulla nuova normativa relativa agli appalti internazionali, salutato così dal ministro francese al Commercio estero, Franck Riester: "Disporremo di uno strumento efficace per penalizzare i Paesi che non aprono a sufficienza i loro mercati pubblici agli europei. L'Europa naïve è il passato".
Alla naïveté, si aggiunge un secondo fattore di vulnerabilità, strutturale: l’incompiutezza stessa dell’Unione e la presenza di interessi divergenti tra i suoi membri ci hanno lasciati scoperti in ambiti strategici. Se la mancanza di politiche comuni su bilancio, salute ed energia – per citare gli ambiti al cuore delle ultime tre crisi globali – poteva semplicemente essere un fattore “subottimale” nel mondo immaginato negli anni Novanta, si rivela una fragilità potenzialmente fatale nella realtà odierna.
A certificare la necessità di un cambio di rotta sono i leader europei stessi, nelle conclusioni del vertice informale di Versailles del 10 e 11 marzo, riprese anche nell’ultimo Consiglio europeo del 25 marzo. Nel comunicato leggiamo che l’Ue deve impegnarsi per raggiungere una maggiore autonomia non solo in ambito energetico, ma anche per quanto riguarda semiconduttori, materie prime, salute e agricoltura.
Un’Europa meno naïve e più integrata saprebbe non solo muoversi in maniera più efficace sullo scenario internazionale, ma anche provvedere meglio ai suoi cittadini. In altre parole, permetterebbe di salvaguardare alcuni dei valori che ci contraddistinguono, come la capacità protettiva dei nostri Welfare State e la salute delle nostre democrazie. Un aspetto tutt’altro che secondario visti i preoccupanti trend che osserviamo: secondo il rapporto annuale Ipsos 2021, ad esempio, il 47% degli italiani pensa che il Parlamento sia un organismo superato, mentre la stessa percentuale di intervistati avverte il bisogno di un leader forte disposto a infrangere le regole. Sono sintomi di democrazie sempre più messe sotto pressione da una doppia concorrenza: economica, della globalizzazione; politica, di altri regimi, disposti a barattare diritti e libertà in cambio di tempi e processi decisionali più rapidi. Ormai numerosi studi, basati su approcci e metodologie differenti, concordano nel dire che, nel mondo, il numero di regimi considerati autocratici ha superato nuovamente il numero di democrazie.
Un’Europa meno naïve e più integrata saprebbe non solo muoversi in maniera più efficace sullo scenario internazionale, ma anche provvedere meglio ai suoi cittadini, salvaguardando i valori che la contraddistinguono
Oggi, a 30 anni dalla sua nascita, l’Ue deve diventare adulta. Di fronte al crollo dei miti della giovinezza, l’Europa deve stare dentro la storia, saperla abitare da attore politico maturo con le sue specificità. Questo significa riadattare il modello europeo, trovando nell’equilibrio tra princìpi e realtà, tra ingenuità e cinismo, tra l’essere deboli e l’essere forti, una risposta distintiva e innovativa. Solo così potremo salvaguardare veramente i nostri valori in un mondo con regole sempre meno condivise: perderli, perché non siamo in grado di difenderli o perché siamo pronti a tradirli, decreterebbe la fine dell’Ue come potenza di valori.
È una questione esistenziale, perché tocca le radici profonde del progetto di integrazione, la sua ragion d’essere. È qualcosa che non può essere affrontato in un “semplice” Consiglio europeo, per quanto lungo come quello di Next Generation EU a luglio 2020. Serve una nuova Convenzione europea per superare le vulnerabilità strutturali imposte dai veti nazionali, ma anche per porre domande scomode: quali sono i tratti peculiari del modello europeo? Che ruolo vogliamo avere nel mondo e nel cambiamento d’epoca che stiamo attraversando? Siamo pronti a confrontarci con attori apertamente ostili ai nostri valori? Con quali modalità siamo disposti a continuare a promuovere i princìpi e le regole del multilateralismo come strumento di pace e lotta al cambiamento climatico?
Rispondere a queste domande significa definire quali sono gli obiettivi strategici dell’Unione europea, quale ruolo vogliamo giocare sullo scacchiere internazionale e quali strumenti riteniamo allo stesso tempo realistici e compatibili con i nostri valori. In altre parole, significa superare una volta per tutte la naïveté degli ultimi decenni, per formulare finalmente una vera e propria dottrina europea, espressione delle nostre peculiarità e dei nostri princìpi, nonché bussola del nostro agire comune, dentro e fuori dall’Unione. Si tratta di qualcosa di diverso, molto più ampio, rispetto alla bussola strategica appena approvata dagli Stati Ue, che si concentra esclusivamente su difesa e sicurezza e, tra l’altro, non tenta di definire le specificità di un approccio europeo sulla scena internazionale. Serve una dottrina per integrare tutti gli ambiti strategici di policy domestici ed esteri – inclusa un’auspicabile difesa comune – e per incanalare le passioni del momento verso gli obiettivi di lungo termine.
Un’anticipazione di questa dottrina si potrebbe già avere ai negoziati internazionali che dovranno accompagnare il processo per una pace duratura in Ucraina. Un appuntamento al quale l’Unione deve partecipare con una sola voce, con le idee chiare sulle sue linee rosse, sui punti di mediazione e sugli attori da coinvolgere. Non possiamo ignorare che anche solo all’interno del G20 non esiste pieno allineamento rispetto alle posizioni europee sulla questione, a partire dalle cautele dell’Indonesia, che quest’anno detiene la presidenza.
La composizione stessa del G20 indica un’altra necessità per lo sviluppo di una dottrina europea che possa guidarci nei prossimi decenni. Da tempo ormai, trend demografici ed economici rimettono in questione l’egemonia delle società aperte: secondo le elaborazioni di Bloomberg, mentre nel 1990 oltre il 60% del Pil globale era generato da economie di mercato, nel 2050 solo il 26% lo sarà. Se noi europei vogliamo continuare a giocare un ruolo di primo piano, l’Ue dovrà sviluppare un pensiero e strumenti strategici adattati a un mondo radicalmente diverso da quello di Maastricht.
La sfida non è semplice e ci obbliga a rimettere in discussione tante delle convinzioni con cui è cresciuta la nostra generazione di europeisti – nata proprio negli anni di Maastricht. Ma è da qui che vedremo se l’Unione europea era soltanto un sogno adolescenziale o se è pronta a stare nel mondo dei grandi.
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