Da tempo, il mito dell’ospitalità sarda è cosa granitica e diffusa. Senza dover scomodare scienziati sociali di vario rango, basta prendere in mano la Guida del Touring club italiano del 1918 per vedere come si dipingeva la Sardegna. Un’isola dove il turista poteva ancora sia ammirare fantastici paesaggi incontaminati sia godere dell’accoglienza locale: «L'ospitalità sarda non è un mito, si manifesta in tutte le classi, in tutti i gradi ed in tutti i modi, in una misura che stupisce il continentale, ed in maniera cordiale, toccante, di cui non ha idea. Bisogna far molta attenzione a non ferire la suscettibilità dell’ospite con profferte di compensi, che pur sembrerebbero dovuti e naturali». Ma già quasi due secoli prima il gesuita piemontese Francesco Gemelli, professore di eloquenza latina all’Università di Sassari, nel suo Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura (1776), scriveva: «Non avendo questo regno al par della Corsica pubblici alberghi od osterie, supplisce a un tal difetto la molta cortesia de’ paesani; conciossiaché sien veramente i Sardi nella ospitalità emulatori delle più colte nazioni, e imitatori della cordialità de’ tempi eroici e de’ patriarcali»
Ma ogni narrazione su profili comportamentali e personologici che si sedimenta nel tempo ha sempre il momento della sua verifica, del suo confronto con il reale. E per l’isola questo momento pare arrivato con il Sprar, il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati messo in piedi dal ministero dell’Interno e coordinato, a livello locale dalle prefetture. Un sistema che ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti/titolari di protezione internazionale e umanitaria accolti: ovvero, «una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza».
Il Tavolo di coordinamento regionale sui flussi migratori ha recentemente fornito le cifre sul numero dei beneficiari dello Sprar, oltre seimila migranti. Un numero importante per l’isola, che ha appena subito l’innalzamento ministeriale di 1.200 unità delle quote destinate a un territorio assolutamente impreparato secondo le linee guida dello stesso ministero – ad accogliere un volume così consistente di migranti. Ma, oltre i deficit relativi ai posti letto, la carenza e assenza di quelle figure – educatori, psicologi, insegnanti e mediatori culturali – che dovrebbero accompagnare i migranti nel loro reale percorso di inserimento socio-economico nel territorio di accoglienza, ciò che sembra essere un seria fonte di conflitti è il meccanismo reale della governance dello Sprar, i legami troppo laschi tra prefettura e amministrazioni comunali, che poi sono le vere protagoniste quotidiane della gestione dell’accoglienza «integrata»: comunicazioni confuse, frammentate e quasi inesistenti sono tra i motivi di più diffusa lamentela dei sindaci che, spesso loro malgrado, si trovano a dover governare un diffuso clima di paura tra i cittadini, che non di rado si trasforma in ostilità.
Le decisioni prefettizie di invio dei migranti nelle diverse comunità locali vengono spesso lette da queste come atti centralistici «arroganti» presi in piena solitudine, che nulla hanno a che fare con le politiche di «accoglienza integrata», co-partecipata, rispettose degli spazi di autonomia decisionale rivendicati dai territori. E sempre più spesso ciò che si verifica sui territori è una vera e propria risposta «armata» alle decisioni prefettizie.
A Buddusò (in provincia di Sassari), a metà novembre un attentato dinamitardo ha distrutto l’agriturismo che avrebbe dovuto accogliere un gruppo di migranti; il giorno dopo in un’assemblea pubblica i cittadini hanno detto chiaro e tondo che «ripudiano la violenza, ma che il paese non accoglierà i migranti». Nel frattempo, i proprietari della struttura hanno ritirato la disponibilità ad accoglierli.
All’inizio di ottobre, dopo varie proteste organizzate dall’amministrazione comunale e dai cittadini contro l’apertura del Centro di accoglienza per migranti all’interno dell’ex scuola della polizia penitenziaria di Monastir (alle porte di Cagliari), c’era stato un altro attentato, con il quali anonimi avevano tentano di incendiare e far saltare in aria la struttura. Pochi giorni dopo, al prefetto di Cagliari veniva recapitata una busta con all’interno alcuni proiettili e minacce gravi alla sua persona in caso di apertura del Centro. Con un’affermazione che sa di cautela e di tentativo di riavvicinamento con il tessuto locale, lo stesso prefetto ha dichiarato poi che la struttura sarà aperta «solo in caso di temporanea indisponibilità di posti presso le altre strutture prefettizie».
Insomma, alla prova dei fatti, qualsiasi mito sembra cadere, anche quello dell’accoglienza sarda, provocando però in questo caso molto dolore diffuso, visto che a pagarne le spese sono in prima persona i migranti a cui è negata una possibilità di accoglienza. Ancora una volta, quando si tratta di temi legati al fenomeno migratorio, il nostro Paese si dimostra incapace e inadeguato: in questo caso una maggiore attenzione alla comunicazione tra centro e periferia potrebbe sanare una frattura che di settimana in settimana si sta facendo sempre più larga, e porsi come rimedio a un sempre più diffuso clima di diffidenza e ostilità nei confronti dell’altro.
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