Questa è la storia di una valigia, capace di contenere i suoni del mondo, di un libro, tornato a suonare dopo 26 anni di silenzio, in Marocco. Una storia iniziata nel 1976, quando Giorgio Battistelli era poco più che un ragazzo agli inizi della carriera di compositore. Lo affascinavano l’alchimia, la psicologia e le macchine celibi di Marcel Duchamp. Ispirato al geniale avanguardista francese, mise insieme tavole di legno, cerniere e cinghie di cuoio, un solido manico e un’idea precisa da assemblare: la creazione di uno scrigno magico, da prestigiatore dei suoni.
Battistelli cammina per Marrakech insieme alla valigia-libro-performance-che-suona, con la nonchalance di chi è abituato a impugnarla. Ma quell’oggetto non è indifferente. Emana un fascino sottile che scricchiola nella pietra rosa della Medina, sussurra tra le fronde dei gelsomini e degli aranci, sfrega i pavimenti decorati in marmo e zellige, bisbiglia nei riad dai cortili ombreggiati, scivola sulle maioliche bianche, blu e turchesi ad arabeschi scolpiti, gorgoglia tra gli intarsi ricamati sulle pareti in legno di cedro.
Una valigia che ha viaggiato, incantando, per il mondo, una valigia che non è mai accompagnatrice, ma unica protagonista. Il suo nome è Libro celibe. Eppure dal giorno del sessantesimo compleanno di Luciano Berio, festeggiato al Teatro comunale di Firenze nell’autunno del 1985, riposava sul fondo di un armadio. Nel frattempo Battistelli è divenuto un compositore affermato e l’esperienza di quel libro magico è rimasta annidata in un nascondiglio interiore. Poi l’invito di Chiara e Mauro, imprenditori e collezionisti d’arte che hanno cambiato vita aprendo una gelateria chic nel quartiere di Guéliz, con la proposta irresistibilmente bizzarra di rispolverare il Libro celibe alla Biennale d’arte contemporanea di Marrakech. Battistelli non sapeva di trovarsi nella città ideale per un ritorno a quell’invenzione, ma appena sbucato su Djemaa el Fna ecco che i suoni del mondo, impacchettati in bagaglio, trovano amplificata corrispondenza nell’euforia della più strabiliante piazza di tutto il Maghreb. Giocolieri e astrologi, cartomanti e decoratrici di henné, cavadenti con mostruose pinze da cavallo, suonatori di mizmar, incantatori di serpenti, saltimbanchi, gabbie di camaleonti, ammaestratori di babbuini, servitori d’acqua da fetide borracce, muli che sfrecciano trainando uova di struzzo e fragole giganti su carretti sbilenchi si mescolano come i colori primari su una tavolozza dalle tinte inesauribili. Per secoli impegnata dall’”assemblea dei defunti”, luogo destinato alle pubbliche esecuzioni, Djemaa el Fna è un vertiginoso inno alla vita, risorta più volte nel continuo fiorire di suq, dove da mille anni cestai, tornitori, ciabattini, speziali, tintori, conciatori, gioiellieri, calderai si danno appuntamento.
Il Libro ascolta silente la brulicante orchestra della piazza, si carica di suggestioni timbriche mentre scende il tramonto sulle vette innevate dell’Atlante, in una gradazione di rossi che declinano sino alle dune sabbiose. Attraversiamo la Valle di Ourika, direzione Sud Est, dopo quattordici chilometri giungiamo a Dar Al-Ma’mûn. Ed è uno shock. Appoggiato sul fianco del povero villaggio di Tassoultante, si staglia un hotel di design che è anche centro culturale e residenza per artisti, distribuito su quattromila metri quadrati. Percorriamo il giardino tra una varietà enciclopedica di cactus, le rocce infuocate si contrappongono a improvvisi cuscini rosa d’oleandri, i fusti di palme, noci, cipressi si slanciano punteggiando il marrone uniforme del deserto. Creato dall’enfant prodige del trading Redha Moali e da sua moglie Houria Afoufou, Dar Al-Ma’mûn è un’utopia di mecenatismo ispirata ai principi di un lusso etico, che comprende studiò, gallerie e una biblioteca di oltre diecimila volumi. Con Dar Al-Ma’mûn, il golden boy francese di origini algerine ha dato un calcio ad almeno un paio di vite passate: la prima trascorsa in banlieue, nel mito di possedere per esistere, dove una baby-sitter studentessa gli instillò il tarlo della cultura, leggendogli Mao e Dostoevskij per addormentarlo. La seconda conquistata grazie a doti matematiche eccezionali, coronata dal successo finanziario a Londra e a Ginevra, e conclusa con l’abbandono di schianto di quell’estrema esperienza consumistica. Un’uscita di prigione come l’ha definita lo stesso Redha, che ora respira l’aria infinita del vento khamsin e coproduce la quarta edizione della Biennale, per dimostrare come la cultura sia un investimento produttivo.
I bambini del vicino villaggio scorrazzano, liberi di potersi dedicare ai loro giochi, mentre è tempo della performance di Giorgio, stabilita proprio nella biblioteca infantile. Omar racconta che quel luogo è il simbolo del programma di alfabetizzazione per il villaggio di Tassoultante: le mamme sono state pretestuosamente convocate a foderare i libri uno a uno, e ben presto quelle stesse madri hanno chiesto d'imparare a leggere, così da poter capire con quale autobus tornare a casa. Il Libro Celibe è in terra. Battistelli scoperchia le ante rivelando la partitura tridimensionale di un’opera che diviene performativa nel gesto semplice di girare pagine di carta, cartone, seta, pelle, metallo, legno. Giorgio accarezza, sfiora, strappa, appallottola, struscia e gratta i fogli in sequenza; è una lettura delle mani che racconta una minuziosa storia di suoni. Ascoltata e compresa da tutti, come in un mondo senza parole.
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