La recente sentenza della Corte di Cassazione (4184/2012) della quale hanno parlato i maggiori quotidiani ha riaperto il dibattito in merito alla questione se le coppie formate da persone dello stesso sesso possano considerarsi «famiglie». La pronuncia, che non ha mancato di scatenare le furiose critiche di taluni parlamentari, tanto da indurre alcuni di loro a domandare subito al presidente Napolitano, nella sua qualità di presidente del Csm, di «sanzionare» il giudice che l’aveva firmata, costituisce però null’altro che la traduzione nel nostro ordinamento di principi già affermati sul piano europeo.

Nello specifico, il principio per cui, se una coppia di conviventi eterosessuali può da sempre qualificarsi come famiglia alla luce dell’evoluzione dei diritti umani, sarebbe «artificiale» — è la parola usata dalla Corte di Strasburgo — non estendere tale qualificazione anche alle coppie omosessuali, che al pari delle prime sono ugualmente «capaci di costruire relazioni stabili e impegnative».

È dal termine «impegno» che può trarre origine una riflessione sull’omogenitorialità, cioè sulle coppie omosessuali con figli. La loro unione si fonda infatti su un legame spontaneo, nato in conformità a un desiderio che tutti hanno — quello di diventare genitori — e che, per quanto le riguarda, si realizza attraverso un percorso nel quale i figli sono desiderati, cercati e voluti.

Nei Paesi che a oggi riconoscono alle persone gay e lesbiche il diritto di contrarre matrimonio con la persona che amano (e non sono pochi: Islanda, Portogallo, Belgio, Olanda, Svezia, Norvegia, Sudafrica, Argentina, e diversi Stati americani), la coppia ha anche, con qualche sfumatura da Stato a Stato, il diritto di accedere sia ai procedimenti di adozione di minori sia alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

In quegli stessi Paesi, la vita delle coppie same-sex è di gran lunga migliore di quella delle coppie italiane: esse sono espressamente riconosciute dalla legge, hanno dei diritti e doveri reciproci sui quali possono contare e, soprattutto, i loro figli sono considerati a tutti gli effetti figli dell’unione e non solamente del genitore che ha contribuito (biologicamente o geneticamente) a metterli al mondo, come accade invece nei Paesi che, come il nostro, non conferiscono alcuno status alla coppia.

In quei Paesi, infine, l’omosessualità è considerata giuridicamente — come in effetti dovrebbe essere ovunque — una caratteristica del tutto inidonea a influire sulla qualità dell’unione, sulla solidità della famiglia e sulla capacità di ciascuno di essere un buon genitore.

L’esistenza delle famiglie omosessuali dimostra esattamente che la filiazione, prima che dato biologico, è un atto di assunzione di responsabilità. Secondo un’indagine statistica di qualche anno fa, in Italia sarebbero 100.000 le cosiddette «famiglie arcobaleno», cioè le famiglie composte da genitori dello stesso sesso con figli. Tante, dunque, e in costante aumento.

La loro condizione sotto il profilo legale è però precaria, perché la mancanza di riconoscimento da parte della legge comporta per queste famiglie l’assenza di sicurezza e stabilità dell’unione.

Inoltre, nel caso di separazione della coppia o di morte del genitore biologico, l’altro genitore — che è tale proprio perché ne ha assunto il ruolo in modo pieno nella vita quotidiana propria e del figlio — «scompare» completamente dall’orizzonte giuridico e familiare del bambino, che si ritrova così solo.

Senza contare le famiglie omogenitoriali italiane che, recatesi all’estero per accedere a procedimenti di procreazione assistita illegali in Italia, rientrano nel nostro Paese perché è qui che vogliono continuare a vivere. Appena varcano il confine, il nostro diritto smette di riconoscere il legame del bambino col genitore non biologico. Così, se al bambino capitasse malauguratamente di ammalarsi, quest’ultimo genitore non avrebbe la possibilità di assisterlo; inoltre, se il genitore biologico venisse a mancare, il bambino diverrebbe automaticamente orfano. Elementari esigenze di giustizia, o anche solo di buonsenso, dovrebbero indurre il legislatore o, in sua assenza, i giudici a occuparsi del problema. È lo stesso interesse del minore che lo chiede.

Il modo più corretto di guardare all’omogenitorialità, pertanto, dovrebbe essere scevro da pregiudizi. Soprattutto, dovrebbe pensare a tale realtà come una vera e propria famiglia, perché tipici di queste, come di altre famiglie, sono l’amore e l’impegno che esse danno ai loro figli, in linea con quanto rilevato dalla Corte europea.

Molti pensano, al riguardo, che l’omogenitorialità sia qualcosa di sbagliato per due ragioni. La prima riguarda la natura stessa delle famiglie omogenitoriali ed evidenzia nelle stesse l’assenza di un genitore di sesso opposto. La seconda, più perniciosa, ritiene che il bambino subirebbe discriminazioni in una società che non è pronta ad accogliere gli omosessuali, figuriamoci i loro figli. Nessuna di queste obiezioni è convincente. La prima trascura ricerche condotte in campo psichiatrico che, nell’arco di vent’anni, hanno dimostrato che i bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali hanno esattamente le stesse capacità affettive e la medesima condizione psichica di quelli cresciuti in famiglie eterosessuali. La seconda è invece insostenibile in quanto puramente ideologica, e anziché rimuovere le discriminazioni, le legittima.

Non si dimentichi, infine, che il compito dello Stato non è «creare» famiglie, magari a propria immagine e somiglianza, ma prendere atto di quelle che già ci sono e garantire loro un’esistenza libera e dignitosa, come afferma con indubbia forza l’articolo due della nostra Costituzione.

Nonostante i pregiudizi e gli ostacoli che affrontano quotidianamente, le famiglie omogenitoriali continueranno infatti a esistere, e a chiamarsi e a farsi chiamare famiglie, che piaccia oppure no.

 

[Questo articolo è stato scritto insieme a Gabriele Strazio]