Mauro Barberis ha ragione nel sottolineare che la riforma elettorale approvata dalla Camera e ormai nota come Italicum è, sullo sfondo, un elemento essenziale del referendum costituzionale che avrà luogo in ottobre. Dico sullo sfondo, ovvero in maniera implicita, perché essa non è, in quanto legge ordinaria, sottoposta al referendum confermativo che riguarda le norme costituzionali modificate dal Parlamento. Ma è giusto sottolineare che le due, la legge elettorale e la riforma costituzionale, simul stabunt sumul cadent. Infatti, se la riforma della seconda parte della Costituzione dovesse essere bocciata dagli elettori, non solo il Senato manterrebbe la prerogativa della fiducia al governo (come spiace a Barberis, a me e a praticamente tutti i costituzionalisti), ma la seconda Camera sarebbe eletta con la normativa risultante dalla sentenza n. 1/2014 della Corte costituzionale: una legge elettorale proporzionale con sbarramento all’8%, rendendo in tal modo quasi impossibile un governo del Paese. Infatti mentre alla Camera l’Italicum garantirebbe una maggioranza, al Senato non risulterebbe dalle elezioni alcuna forza omogenea in grado di votare la fiducia al governo; sicché, in assenza di un vincitore, la scelta sarebbe o quella pericolosissima di inutili nuove elezioni (come sta accadendo in Spagna), o quella di un governo di tutti, incapace di portare avanti un qualsiasi programma di indirizzo politico.

Il punto che mi divide da Barberis è il suo qualificare l’Italicum come una legge che conferisce una maggioranza “bulgara” al vincitore del ballottaggio e una elezione con legge maggioritaria a doppio turno come un “giudizio di Dio quinquennale”.

In realtà, non solo la nuova legge elettorale garantisce rappresentanza politica a qualsiasi partito superi la bassissima soglia del 3% (è quindi molto più pluralista della Corte costituzionale che esclude dal Senato partiti con meno dell’8%), ma con il secondo turno, dove uno dei due partiti in lizza deve ottenere più del 50%, attribuisce al vincente una piccola quantità di seggi che gli permettono di ottenere la maggioranza. Si tratta di una maggioranza minima appena in grado e forse non sufficiente a garantire il governo di un Paese come l’Italia.

Dell’intervento della Corte costituzionale e dei referendum abrogativi dell’Italicum si parlerà quando si sarà espressa la Consulta.

È strano però che né Barberis, né i sostenitori del «no» parlino del ruolo essenziale della nostra Corte costituzionale: quello di giudice delle leggi. Un ruolo che le ha permesso in questi ultimi decenni di funzionare come il controllo più importante sulle decisioni delle maggioranze elette. Non parlano nemmeno del fatto che uno Stato semi-sovrano, come è l’Italia, in quanto membro dell’Unione monetaria europea, con maggioranze forti o deboli può prendere molte decisioni solo con l’accordo dei partner europei. I controlli verticali sulle maggioranze non mancano, anzi caratterizzano in modo essenziale lo Stato costituzionale di diritto. O dovremmo abituarci per sempre al controllo sulle maggioranze da parte dei Mastella e dei Turigliatto di turno?