Il dibattito sull’Italicum sta sfiorando punte di nevrosi collettiva che raramente si sono viste nella storia repubblicana, sia all’interno del partito di maggioranza relativa sia tra le opposizioni. Certo, chi conosce le dinamiche del nostro Parlamento sa che nel corso del tempo non sono mancati momenti di acceso scontro politico. Ma ciò che impressiona dell'attuale discussione sulla riforma della legge elettorale è come sia accompagnata da interventi che, depurati dagli appelli retorici alla difesa delle istituzioni democratiche, poggiano spesso su opinioni fragili e "ballerine", che espongono i loro stessi sostenitori a palesi contraddizioni fra quanto argomentavano tempo fa e quanto vanno dicendo in queste ore.
La discussione sulle leggi elettorali nel nostro Paese è sempre stata assai complicata, e in una certa misura è anche inevitabile che sia così, data la complessità della materia e la varietà dei punti di vista che su di essa si possono assumere. A volte la si è fatta con l’intento di massimizzare gli effetti positivi sulle sorti della propria forza politica, a volte cercando di salvaguardare gli interessi di tutti, a volte ancora privilegiando, in generale, uno dei due lati del consueto cortocircuito tra rappresentatività e governabilità.
Come si possono assicurare le condizioni necessarie per una democrazia decidente, un governo responsabile, oltre che stabile? E, ancora, come tener conto del ruolo di un’opposizione che non rimanga un mero orpello e possa interagire fattivamente con il governo, oltre a essere in grado di candidarsi come alternativa credibile a chi detiene le redini del potere esecutivo? Consapevoli che un’interpretazione sine ira et studio è in tal senso quanto mai difficile, proviamo almeno a sfatare alcuni falsi miti (accanto ad alcuni errori concettuali e metodologici) che in questi mesi si sono affacciati nella discussione sull’Italicum. Una discussione che a volte è parsa solo una grossolana cagnara, senza alcuna specifica ragione di merito.
Un primo importante test per la valutazione di una legge elettorale è vedere in che misura essa risponda ai suddetti criteri di rappresentatività e governabilità. Sotto il profilo della rappresentatività, una buona legge elettorale è quella che offre un adeguato diritto di presenza (potremmo dire di platea, pensando alle forze più piccole) nell’arena parlamentare a tutti i partiti. E quella che li garantisce meglio è senz’altro una legge elettorale di stampo proporzionale puro. Il punto è che, in contesti caratterizzati da una forte frammentazione partitica, un’eccessiva dose di rappresentatività implica maggiori difficoltà di assicurare al sistema governi relativamente coesi e stabili. In pratica: non si riesce a governare, se non ricorrendo a infiniti compromessi.
È per questo che si fa riferimento a un secondo importante test di valutazione di una legge elettorale, ispirato per l’appunto al criterio della governabilità. Da questo punto di vista, una buona legge elettorale è quella che crea le condizioni migliori per la formazione di governi stabili, dotati di una maggioranza sufficientemente solida, almeno sul piano numerico, da non essere messa in discussione a ogni alito di vento.
Pur essendo il mondo delle leggi elettorali sempre perfettibile, siamo dell’avviso che l’Italicum – così com’è – rappresenti alla fine un adeguato compromesso fra i due elementi. Sul piano della rappresentatività, la legge riesce a garantire un diritto di presenza (o di platea) anche alle forze politiche di opposizione, sia di grande sia di media consistenza elettorale, a patto che superino la soglia di sbarramento del 3%, che si raffigura come un antidoto soltanto verso i partiti di “piccola taglia”, che tanti danni hanno arrecato negli ultimi anni alla stabilità dei nostri governi.
Sul piano della governabilità, sfrondando la discussione da quell’insieme di critiche incomprensibili che alludono a presunte “svolte autoritarie”, la legge riesce a garantire le condizioni per un rafforzamento dell’esecutivo, grazie alle quali un governo potrà esercitare, in maniera stabile e nella piena responsabilità del primo ministro, la propria funzione di guida e indirizzo politico. In pratica: un governo che può governare.
Si è tanto discusso sulla eccessiva consistenza del premio di maggioranza (340 seggi alla lista vincitrice) ma stiamo in buona sostanza parlando di una percentuale pari a poco meno del 54% della Camera, cioè del minimo di numeri che una maggioranza deve avere per non rischiare di crollare alla prima votazione in aula.
Volendo portare un esempio, anche molto vicino a noi, basti pensare come nelle elezioni a turno unico per la Camera dei Comuni del 2005 il Labour Party, con soltanto il 35% dei voti elettorali, si è portato a casa 356 deputati su 646, equivalenti al 55% dei seggi complessivi. E nessuno, tanto meno l’opposizione dei Tories, si è mai sognato di parlare di “svolta autoritaria”, rassegnandosi al fatto di subire gli effetti drasticamente maggioritari di un meccanismo elettorale altamente punitivo per chi perde le elezioni.
Peraltro, il premio di maggioranza assegnato a una lista (che si auspica sia costituita da un solo partito, anche se questa condizione il legislatore non la può assicurare), invece che a una coalizione di liste, dovrebbe mettere al riparo dalla friabilità post voto di coalizioni scarsamente coese, unite nel solo spirito elettorale, che poi si squagliano come neve al sole di fronte alle priorità di governo. Come accadde a Prodi nel 2006.
Altro punto assai discusso dell’Italicum, vera e propria vexata queastio delle dispute parlamentari di queste settimane (e in verità molto, troppo richiamata in chiave esclusivamente strumentale), è la questione delle preferenze. E qui shakespearianamente verrebbe da dire “molto rumore per nulla”, pensando a come fra maggioranza e opposizione, così come all’interno della stessa maggioranza, si continuino a incrociare le lame su capilista “nominati” e preferenze. Perché, si badi, l’effetto finale è quasi un paradosso: soltanto chi governerà, soltanto il partito che avrà la maggioranza alla Camera, sarà composto da una quota prevalente di deputati eletti attraverso le preferenze. Tutti gli altri partiti o movimenti, se non per rare eccezioni, presenteranno in Parlamento candidati che sono stati di fatto decisi dai partiti stessi, cioè i capilista. Questa la situazione che si verrebbe a creare stando alle ultime ipotesi della legge elettorale dell’Italicum. Dunque, riassumendo (un po’ noioso, ma ci tocca farlo):
- il territorio nazionale dovrebbe venir suddiviso in un centinaio di collegi. Visto che la Camera prevede l’elezione di 617 deputati (più 12 che arrivano dall’estero e 1 dalla Valle d’Aosta), ogni collegio farebbe eleggere in media circa 6 deputati, diciamo tra 5 e 7, considerando la possibilità di diverse ampiezze del collegio;
- i capilista di ogni partito, in ognuno dei collegi, dovrebbero rimanere “bloccati”, vale a dire che il primo eletto in ogni collegio, per ogni forza politica, coincide appunto con il capolista, mentre per gli altri eletti conta la classifica delle preferenze;
- al partito o alla lista che vincerà le elezioni spetta un premio di maggioranza che, come si è detto, lo porta ad avere il 54% circa dei deputati, premio che arriverà o direttamente al primo turno (se supera la soglia del 40 per cento dei voti) oppure dopo un ballottaggio tra i primi due classificati.
Dunque: dati i 617 seggi totali a disposizione, il vincitore disporrebbe di un patrimonio di 340 eletti. Cento di questi coincidono con i capilista dei collegi, se non si candidano in più di un collegio, altrimenti sono anche meno. Gli altri 240 arriverebbero dai candidati più votati dagli elettori di quel partito. La situazione per i partiti perdenti, quelli che andranno all’opposizione, è invece esattamente quella opposta. Tutti gli eletti, allo stato attuale dei rapporti di forza, non possono essere che i loro capilista dei diversi collegi. Devono spartirsi infatti i rimanenti 280 seggi, ed è molto difficile che qualche lista riesca ad ottenere più di un seggio all’interno dello stesso collegio. O meglio, qualcuno potrebbe farcela (probabilmente la Lega), qualora sia molto radicato in specifici ambiti territoriali, ma sarebbero certamente casi abbastanza isolati.
Le ultime tendenze di voto vedono il Pd vincitore, il M5s al 20%, Lega e Forza Italia tra il 13 e il 16, Ncd (+Udc), FdI e una lista di sinistra sopra la soglia di sbarramento, che è ora al 3%. Sulla base di queste stime, al Pd, se vince il ballottaggio, andrebbe dunque la maggioranza dei seggi, al movimento di Grillo ne spetterebbero circa 100, 70 alla Lega, 50 a Forza Italia e circa 20 alle altre forze. È evidente che pochi di questi eletti, tra i partiti che andrebbero all’opposizione, potrebbero essere diversi dai capilista. Possiamo ipotizzare che soltanto M5s e Lega avrebbero 5 o 6 candidati eletti tramite le preferenze e, forse, 1 o 2 per Ncd-Udc, nel Sud. In sostanza, nel Parlamento derivante dall’Italicum, si assiste a questa interessante situazione: il partito che governa sarebbe composto per quasi due terzi da eletti attraverso le preferenze, mentre i partiti all’opposizione sarebbero composti per la quasi totalità da candidati “bloccati”, i capilista appunto designati dai partiti stessi.
Non si sa se questo fosse l’intento di chi ha disegnato la nuova legge elettorale, ma certo il prodotto finale non dovrebbe scontentare più di tanto chi, all’interno del Pd, sostiene la battaglia per le preferenze. Il suo segretario potrebbe contare di fatto, al massimo, su 100 uomini “fidati” su 340: sarebbe dunque questa la dittatura di Renzi?
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