L’Italia è un Paese “moderno”? Potrebbe sembrare una domanda assurda, ma non lo è. Non intendo infilarmi in una discussione sul significato di moderno o perdermi nell’analisi di quanto la società italiana sia già “oltre”, in piena “post-modernità”. Mi limito a considerare due aspetti che rendono il sistema sociale italiano “arretrato” in base ai parametri che caratterizzano la maggior parte dei Paesi sviluppati dell’occidente europeo.

Almeno due tratti che caratterizzavano l’“Antico regime”, uno sociale e uno culturale, sono rinvenibili nell’Italia odierna. Si tratta dei rapporti sociali contraddistinti da situazioni di privilegio e da disuguaglianze profonde di tipo ereditario, e una cultura diffusa  non scientifica od ostile, in molti settori, alla penetrazione di idee scientifiche.

L’Italia, che non ha avuto né la Rivoluzione né la Riforma, nel XXI secolo presenta divisioni e blocchi sociali d’Ancien régime. Esagerato? Può essere. Provocatorio? Certamente. Ma la dose di sconforto che coglie chi studia le trasformazioni sociali e culturali di oggi è tale da giustificare anche qualche provocazione.

Vengo ai due aspetti principali. Le disuguaglianze, in primo luogo. Si potrebbe obiettare che la crisi economica ha esacerbato le disuguaglianze in tutto il mondo, accrescendo la distanza tra l’1% dei più ricchi e il resto della popolazione, come dice Occupy Wall Street. È senz’altro vero. Gli Stati Uniti ne sono un esempio superlativo, che ha indebolito il “sogno americano” della possibilità per tutti di accedere, con l’impegno e il talento, al top della scala sociale. Ma da noi il fenomeno è diverso, in primo luogo perché non è stata la crisi a ridurre la mobilità intergenerazionale (che riguarda  la posizione sociale dei figli rispetto a quella dei padri) in quanto in Italia è sempre stata molto bassa.

L’accesso a condizioni sociali superiori (per denaro, potere, prestigio) in Italia continua a essere ancora in gran parte legato all’ereditarietà. La “casta” è un termine fortunato per indicare la chiusura e i privilegi del ceto politico, anacronistici in una democrazia. Ma bisognerebbe estenderlo all’imprenditoria, alle professioni, al mondo accademico, a ogni situazione in cui sono disponibili importanti ricompense e riconoscimenti sociali. Non basta avere talento, essersi impegnati, aver frequentato le scuole migliori, magari con i massimi rendimenti. Bisogna essere “figli di…” e/o far parte dei “giri” politici e dei salotti giusti se si vuol fare in qualche modo carriera. E non si tratta dell’ultranoto problema dell’italica raccomandazione. Questa continua a essere conditio sine qua non per poter “concorrere”, ma, essendo tutti raccomandati, non è più condizione determinante per vincere. 

È la mancanza di opportunità per tutti il vero scandalo del nostro Paese.

Il secondo aspetto  tipico di un Paese non moderno è la diffidenza per la scienza e la scarsa diffusione della cultura scientifica. Tutte le indagini nazionali e internazionali confermano da anni che è quanto avviene in Italia. Che Galileo non fosse ben visto dalla Chiesa è ben noto. Da allora sono passati molti anni, la Chiesa ci ha messo alcuni secoli per fare ammenda, ma proliferano nel nostro Paese maghi, superstizioni di ogni tipo e, soprattutto, una percezione distorta e dilettantesca della scienza. Quel che più colpisce è che organi di informazione politici si ritengano in diritto di sentenziare che i terremoti si possono prevedere, i tumori curare con metodi non verificati, che una persona in stato vegetativo da diciassette anni (come Eluana Englaro) possa comunicare, alimentarsi e perfino procreare. Colpisce che mentre i governi degli altri Paesi continuano a investire sull’istruzione e sulla ricerca anche nella situazione economica attuale, i nostri governi pensino che giovi di più fare il contrario, mostrando, non diversamente dalla media degli italiani, una scarsa considerazione per la scienza e confermando implicitamente un giudizio negativo dello Stato sulla necessità di produrre e acquisire conoscenza, per cercare di evitare e/o superare le difficoltà nei momenti di crisi. In fondo i due aspetti descritti, la disuguaglianza ereditaria e la diffidenza per la scienza, sono due facce della stessa medaglia: se la selezione della classe dirigente non avviene sulla valutazione della competenza, perché Stato e cittadini devono investire tempo e denaro per la formazione e la ricerca?