L’attuale governo si è dato una missione: «la modernizzazione e lo sviluppo del Paese». La spinta decisiva è affidata ad un programma di 80 grandi opere infrastrutturali, prevalentemente strade ed autostrade. L’investimento previsto è di circa 120 miliardi di euro. Lo strumento attuativo è la «Legge-obiettivo», che traccia un percorso diretto fra la decisione politica e la costruzione dell’opera, saltando ogni passaggio intermedio. A tal fine i soggetti decisionali vengono ridotti a due: il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) che, sulla base di studi preliminari, individua le opere da finanziare e il «General Contractor», che è l’impresa privata a cui viene affidata sia la progettazione che la realizzazione dell’opera. Ogni singolo intervento avrà una sua autonoma forza propulsiva e non sarà più necessaria una programmazione generale. Infatti, la Legge-obiettivo stabilisce che: «L’inserimento nel programma di infrastrutture strategiche non comprese nel Piano generale dei trasporti costituisce automatica integrazione allo stesso». Per la verità questa innovazione concettuale non è una novità assoluta, dato che il planning by doing era già stato sistematicamente utilizzato dal sindaco Rutelli per trasformare Roma in una metropoli moderna ed efficiente. Il primo decreto di questo «new deal in 80 cantieri» ha visto la luce il 21 dicembre 2001. Il Cipe ha individuato le prime 19 opere; fra queste l’assoluta priorità è stata assegnata al ponte sullo Stretto di Messina. Così ora, a pieno diritto, questo ponte diventa il «Ponte». Conviene allora esaminare più da vicino quest’opera per capire un po’ l’Italia che verrà.
La storia del Ponte inizia da molto lontano. Agli albori della civiltà, Omero descrisse la traversata di Ulisse fra Scilla e Cariddi come una delle imprese più ammalianti e allo stesso tempo più perigliose dell’odissea dell’eroe, divenuto poi simbolo della condizione umana. È comprensibile quindi che l’attraversamento stabile dello Stretto di Messina sia diventato da allora una sfida irresistibile per gli uomini che hanno fatto la storia. I romani furono i primi a provarci. E non poteva che essere così. Infatti, essi non solo furono gli inventori dei ponti, ma ne fecero anche un elemento strategico della loro storia: i ponti resero possibile la costruzione di quell’avveniristica rete stradale, che fu decisiva per la conquista e la gestione dell’Impero. Il titolo di pontifex maximus, cioè capocantiere per la costruzione di un ponte, ben presto passò ad indicare ruoli sociali sempre più elevati. Tanto che oggi la nostra massima autorità spirituale ha il titolo di Sommo Pontefice.
I romani fecero ponti che allora stupirono il mondo, come quello traianeo che attraversava il Danubio ed era lungo ben 1.133 m. È chiaro quindi che non potevano non prendere in considerazione la costruzione di un ponte fra Scilla e Cariddi. Ci provarono seriamente, ma poi sopraggiunse il declino dell’Impero. E l’impresa rimase ancora un sogno. Anzi diventò un mito, nel senso che trovò sempre più posto nel mondo della fantasia che in quello della realtà. E sì che furono tanti ed illustri personaggi ad interessarsene.
L’Imperatore Carlo Magno nel IX secolo giunse in Calabria e, appena in vista della Sicilia, s’invaghì dell’idea di congiungere con un ponte le due sponde e pensò di coinvolgere nell’epica impresa Franchi e Sassoni, Avari e Alemanni, Bavari e Longobardi; egli aveva già in testa l’Europa unita. Ma non si fece né l’Europa né il Ponte. Se ne riparlò a metà del XI secolo quando il conquistatore normanno Roberto il Guiscardo, a sentir le cronache di Guglielmo Appulo, ne avrebbe addirittura iniziata la costruzione; ma, per la verità, non ne sono state trovate tracce. Anche i sovrani inglesi Stephen, Henry II e Richard I, secondo la Historia Anglorum di Matteo Paris (XIII secolo), studiarono con impegno un collegamento sullo Stretto, ma senza alcun costrutto. Si accumularono poi altri secoli di proposte, tutte finite regolarmente nel limbo delle velleità. La grande ingegneria romana sembrava non aver lasciato eredi. Sennonché i fili della storia si riallacciarono improvvisamente in una trama concreta nel 1969, quando gli americani sbarcarono sulla luna.
Nel clima euforico delle nuove frontiere per la specie umana, riemerge con forza anche il progetto del Ponte.
Sono infatti i nostri ingegneri dell’Anas, certamente memori delle imprese storiche dei nostri antenati, a sostenere che i tempi sono ormai maturi per completare la rete nazionale dei trasporti con un ponte sullo Stretto di Messina.
Una pazza idea? Niente affatto: nel 1971, una legge dello Stato, la 1.158, afferma solennemente l’interesse nazionale dell’opera. E si fa proprio sul serio: nel 1981 nasce la Società dello Stretto di Messina, con il compito di «progettare, realizzare e gestire il ponte sullo Stretto». Ma come deve essere fatto il ponte? È subito chiaro che non si può perdere tempo con soluzioni tradizionali quali il ponte a più campate o il tunnel subacqueo o anche tipologie innovative ma di scarsa visibilità, quale il tubo flottante. Per essere degna di un compito conferito dalla Storia e legalizzato dallo Stato italiano, la Società dello Stretto non può che scegliere la soluzione più ardita mai prima concepita dalla mente umana: un ponte sospeso che con un unico balzo colleghi direttamente la Sicilia al continente. Nasce così il «Ponte» della Società dello Stretto.
Il Ponte, azzerata ormai ogni altra alternativa, fa un decisivo passo in avanti nel 1997, quando il Consiglio superiore dei lavori pubblici, massimo organo di consulenza tecnica dello Stato, gli dà una solenne benedizione formale. Si comincia così a pensare concretamente alla sua costruzione. Si presenta però l’ostacolo dei finanziamenti, dato che il costo elevato non sembra facilmente inscrivibile nei bilanci dello Stato. Ma la Società dello Stretto, confortata sempre da autorevoli pareri, garantisce che «il Ponte si paga da sé» e che quindi si può fare senza finanziamenti pubblici. Rimane un ultimo problema, piuttosto ostico. Le associazioni ambientaliste, decise e compatte, si schierano contro il «Ponte della Società»: sostengono che l’impatto ambientale è dirompente. In Parlamento i Verdi sposano totalmente questa tesi, e ne fanno una questione di bandiera. Ogni volta che si tenta di fare la scelta decisiva la loro posizione è: o il Ponte o la crisi di governo.
Nel luglio 1997, durante un dibattito parlamentare, il governo, per evitare il peggio, decide di rinviare la palla a una commissione di esperti.
In seguito a una gara, l’incarico viene affidato a un gruppo di advisors internazionali di indiscusso valore. Il loro parere viene consegnato all’inizio del 2001. La sorpresa è grande: la trentennale tela di Penelope viene impietosamente disfatta. Sostanzialmente le critiche degli advisors sono: a) il «Ponte della Società» è stato progettato solo per reggere se stesso e pertanto le sue dimensioni non trovano alcuna giustificazione nelle sue funzioni; b) non sono state esaminate soluzioni alternative, a partire dal rafforzamento del sistema dei traghetti; c) il Ponte non è autofinanziabile.
Che cosa è successo oggi di questo rapporto? È stato archiviato. Oggi i Verdi non sono più al governo. E la nuova maggioranza ha deciso che il «Ponte della Società» s’ha da fare. L’opposizione non ha avuto nulla da obiettare. È lecito a questo punto porsi una domanda. Perché la Società dello Stretto fortissimamente vuole il suo Ponte? La risposta ufficiale è che «il ponte sullo Stretto di Messina ha nella sua realizzazione il seme dello sviluppo del Mezzogiorno. Collegamento vitale e, nel contempo, opera di eccezionale importanza, il Ponte presenta tutte le capacità di dare impulso allo sviluppo che sono insite nelle grandi infrastrutture e nelle grandi opere».
Sono qui dichiarati tre obiettivi che esamineremo di seguito, partendo dal Ponte-collegamento per passare poi al Ponte-seme e arrivare infine al Ponte-mito.
Per progettare un miglioramento del collegamento fra Messina e Reggio non si può prescindere da un esame della domanda. Nell’anno 2000, i traghetti hanno trasportato mediamente 8.200 veicoli al giorno, costituiti da 6.000 auto, 1.140 autotreni e 1.050 veicoli commerciali. Per avere un termine di paragone dei problemi da risolvere si tenga presente che sulla tangenziale di Mestre il volume è 17 volte maggiore, dato che vi transitano 140.000 veicoli al giorno. Ma queste sono considerazioni da Piano generale dei trasporti che oggi, come si è visto, non è più una questione prioritaria.
Si stima che il traffico potrà aumentare al 2032 da un minimo di 10.500 a un massimo di 18.500 veicoli al giorno. Per quanto riguarda i treni, si va da un minimo di 78 a un massimo di 134 al giorno. Sarà il ponte in grado di sopportare questo traffico? Sembra incredibile, eppure è di inconfutabile evidenza che i progettisti del ponte non sono mai stati infastiditi da questa banale domanda
Gli advisors internazionali hanno stimato che questo traffico potrà aumentare al 2032 da un minimo di 10.500 a un massimo di 18.500 veicoli al giorno. Per quanto riguarda i treni, oggi ne passano 52. Sempre al 2032, le previsioni sono fra un minimo di 78 e un massimo di 134 treni al giorno. Sarà il ponte in grado di sopportare questo traffico? Sembra incredibile, eppure è di inconfutabile evidenza che i progettisti del ponte non sono mai stati infastiditi da questa banale domanda.
Infatti vediamo che la decisione da cui tutto è partito è stata quella di prevedere una sezione di ben 64 m: e non è assolutamente possibile ridurre questa sezione, altrimenti il Ponte a campata unica non sta in piedi! A questo punto è nato il problema: cosa fare della mega-struttura che ne deriva? L’idea più banale sarebbe stata quella di sistemarvi comodamente una cinquantina di campi di calcio. E invece i progettisti hanno avuto più fantasia e hanno preferito disegnare 12 corsie autostradali e due binari ferroviari. Si è raggiunto così un primato: il più grosso corridoio di traffico in Italia.
Cosa farne? In futuro si troverà certamente qualcosa. Per ora, si deve sapere che se si utilizzassero solo tre corsie per senso di marcia, il traffico attuale dello Stretto ci starebbe comodamente dentro per ben 17 volte. Nel 2032, nel caso di crescita elevata, la metà del Ponte sarà sempre 8 volte più grande di quanto necessario. Solo per la ferrovia, le cose andrebbero un po’ meglio, con un’utilizzazione fra il 39% e il 65%, ma non tanto da giustificare da subito il doppio binario. Questa incredibile sproporzione fra l’offerta e la domanda dimostra in maniera inoppugnabile che l’obiettivo primario del «Ponte della Società», non è quello di migliorare i collegamenti fra la Sicilia e la Calabria, altrimenti si sarebbero prese in considerazione soluzioni più fattibili. E, in trent’anni, forse qualcosa si sarebbe già realizzato. Vediamo allora la potenzialità del Ponte-seme.
Oggi sappiamo che le industrie avanzate tendono verso la dematerializzazione. Quindi non c’è bisogno di opere ciclopiche e invasive ma di infrastrutture capillari che migliorino la qualità del territorio e dell’ambiente. Il caso più emblematico oggi è quello delle BioCity. La nuovissima industria della bioingegneria si sta sviluppando non più in grandi e segregate aree industriali, ma nell’interno di aree metropolitane dotate di infrastrutture efficienti.
Oggi sappiamo che le industrie avanzate tendono verso la dematerializzazione. Quindi non c’è bisogno di opere ciclopiche e invasive ma di infrastrutture capillari che migliorino la qualità del territorio e dell’ambiente. Il caso più emblematico oggi è quello delle BioCity
L’Italia non ha in programma nessuna BioCity. Se mai un giorno ci si dovesse pensare, la nuova area metropolitana che si verrebbe a creare unendo con un collegamento stabile Messina e Reggio potrebbe porre la sua candidatura, adducendo almeno dei meriti storici. Infatti negli anni Settanta proprio sullo Stretto, in località Saline di Reggio, la società Liquichimica realizzò un’avveniristica fabbrica di bioproteine. Ma questo impianto, dopo essere stato messo a punto in tutti i suoi dettagli e dopo aver addirittura superato lo start up, non entrò mai in funzione. L’irresponsabilità nell’uso dei fondi pubblici, le insicurezze sociali, il sottosviluppo tecnico-scientifico e i preconcetti etici per la biotecnologia soffocarono nella culla un’iniziativa che avrebbe potuto provocare una svolta nella storia del Sud.
Ma per questa e altre ipotesi di sviluppo innovativo, il «Ponte della Società» non sembra essere la soluzione più idonea. Infatti, questo progetto non solo è penalizzato da un pesante impatto ambientale, che porta alla distruzione di ecosistemi di alto valore, ma introduce un forte condizionamento urbanistico, dovuto alle lunghissime e ingombranti rampe di accesso. E non c’è neppure la speranza che il collegamento ferroviario, data la rigidità del tracciato, possa costituire un moderno sistema di trasporto pubblico metropolitano. Le due città dello Stretto finiranno col ritrovarsi più divise di prima e meno idonee a uno sviluppo di tipo innovativo. Vediamo allora il terzo e più ambizioso obiettivo che si vuole assegnare a quest’opera.
Confermando e ampliando il pensiero della Società dello Stretto, il governo presenta il Ponte come una sfida tecnologica ai limiti delle leggi della natura.
A prima vista la carta d’identità del Ponte non può non suscitare stupore e ammirazione. Si tratta di un ponte sospeso a campata unica, le cui dimensioni sono: lunghezza della luce libera 3.360 m (circa il 60% in più del ponte più lungo oggi esistente, quello di Akashi Kaikyo, in Giappone, che misura 1.991 m e circa il 100% in più del secondo ponte più lungo, quello del Great Belt in Danimarca, di 1.624 m), larghezza dell’impalcato di 64 m (circa il doppio dei più grandi che esistono), altezza delle torri 386 m (60 m in più della Tour Eiffel). Ma vediamone le innovazioni tecnologiche.
La storia dei ponti si divide in 3 ere: l’era del legno; l’era della pietra; l’era dell’acciaio. I cinesi e i babilonesi cominciarono a costruire ponti utilizzando assi di legno. I risultati furono precari e modesti. Poi i romani inventarono lo sviluppo tecnologico, cioè la capacità di armonizzare le forze della natura con le aspirazioni degli uomini. Una delle invenzioni più straordinarie fu il passaggio dalla trave di legno all’arco in pietra. Fu così trovata la soluzione ideale per governare la forza di gravità utilizzando al meglio la resistenza dei materiali naturali. Il ponte romano rimase insuperato fino all’inizio del XIX secolo, quando ci fu l’invenzione di un nuovo materiale: l’acciaio. Per i primi ponti in acciaio si cominciarono a utilizzare le vecchie forme, cioè prima la trave e poi l’arco. Ma ben presto si cercarono nuove soluzioni.
Nel 1937 Roosevelt inaugurò il Golden Gate di San Francisco. Fu, realmente, un new deal: la tradizionale immagine dell’arco romano che poggiava su due pile era stata completamente rovesciata; il nuovo ponte era sospeso a due torri poste alle estremità e il suo profilo, poi diventato familiare, era un arco rovescio. Per quanto è dato di sapere, oggi il ponte sospeso rappresenta l’evoluzione finale delle tipologie legate al nuovo materiale.
E ora il «Ponte della Società» quali nuovi orizzonti ci aprirà? Nuovi materiali? Nuove forme? Nuove dinamiche? Spiacenti di deludervi: il «Ponte della Società» non propone nessuna innovazione di nessun tipo. È solo un tentativo di dar vita a un dinosauro, con i relativi problemi di gigantismo, dall’adattabilità ai movimenti sismici e tettonici alle resistenze estreme dei materiali, dalle microvibrazioni delle strutture alla protezione da atti terroristici. Allora se l’obiettivo è quello di utilizzare il Ponte come il messaggio pubblicitario a scala mondiale della nuova Italia, c’è il rischio concreto dell’effetto boomerang.
Infatti non possiamo continuare ad ignorare che esiste in Italia un gravissimo ritardo nella scienza e nella tecnologia. Oggi siamo decisamente un Paese di serie B. Basti considerare che, tranne una breve parentesi negli anni Sessanta, noi italiani non abbiamo più alcuna presenza internazionale nel campo delle grandi infrastrutture. Inoltre, cosa ancora più mortificante, fra gli oltre 200 Nobel viventi, solo 4 sono italiani; ma tre di essi, Rubbia, Dulbecco e Montalcini, hanno lavorato all’estero, per cui l’unico Nobel italiano è Dario Fo, che è un attore comico. In queste condizioni, se non ci decidiamo prima a riformare la preparazione tecnica e scientifica nella scuola, nell’università e nel mondo delle professioni, la costruzione di quest’opera, gravida di rischi e vuota di funzioni, anziché aiutarci a superare il gap, rischia di aggravarlo, denunciando in maniera clamorosa davanti al mondo intero le nostre incapacità e i nostri limiti. Oltretutto questo gigantesco spot pubblicitario potrebbe rivelarsi anche molto costoso. Una semplice correlazione fra il ponte di Great Belt che è costato 5 miliardi di euro e quello di Akashi che è costato 7,5 miliar-di di euro, suscita il sospetto che il nostro Ponte potrebbe tendere addirittura verso i 10 miliardi di euro.
Dopo trent’anni di studi e 100 milioni di euro, scopriamo che il Ponte è fatto solo di ambizioni velleitarie e di idee inconcludenti. È il segno evidente di una classe dirigente incapace di interpretare e gestire la complessità di una società moderna.
Nel passato pensavamo che esistesse una realtà, distinta da noi, e che a noi uomini fosse concesso il privilegio di conoscerla. Oggi quest’idea schematica e immobile si dimostra sempre più insufficiente. Siamo quindi alla ricerca di una visione più ampia e dinamica.
Cominciamo così a pensare che tutto l’universo possa essere interpretato come un unico processo di evoluzione verso la complessità, dal Big Bang alla coscienza umana, alimentato da un principio generale: il principio di creatività. Questo principio ci prospetta una scelta radicale: rinunciare alla nostra centralità in un mondo piccolo e senza senso, per diventare, in compenso, compartecipi di un’avventura entusiasmante e infinita.
Alla luce di questa nuova visione possiamo vedere come negli ultimi 30 anni è cambiato in maniera sostanziale l’approccio globale con cui l’uomo ha affrontato la trasformazione del territorio e le modificazioni dei suoi ecosistemi.
C’è stata una innovazione istituzionale decisiva: è stata la legge Nepa, cioè la legge-quadro degli Stati Uniti sull’ambiente, varata nel 1970. Questa legge in-troduce un superamento dell’ambientalismo primitivo come difesa aprioristica dello status quo. Essa infatti stabilisce che l’obiettivo delle istituzioni è quello di favorire lo «sviluppo armonico e fecondo fra l’uomo e l’ambiente».
Il cambiamento sostanziale è che il "Giardino dell’Eden" non è più il paradiso perduto nel nostro passato, ma è un progetto che gli uomini e la natura possono costruire insieme per creare un futuro migliore. È qualcosa di più di uno "sviluppo sostenibile", è uno "sviluppo creativo"
Il cambiamento sostanziale è che il «Giardino dell’Eden» non è più il paradiso perduto nel nostro passato, ma è un progetto che gli uomini e la natura possono costruire insieme per creare un futuro migliore. È qualcosa di più di uno «sviluppo sostenibile», è uno «sviluppo creativo».
Di qui nasce la Via, cioè la procedura di Valutazione di impatto ambientale, che è un «processo decisionale partecipativo»: poiché non c’è più un modello a priori a cui ci si deve conformare, allora le decisioni che riguardano le trasformazioni del territorio e dell’ambiente non sono più riservate ai vertici palesi od occulti del potere, ma sono aperte alla partecipazione, alle critiche ed alle proposte dei cittadini. Il «processo decisionale partecipativo» libera la creatività, rafforza il senso di appartenenza e diventa il vero motore di sviluppo.
Questo processo si diffonde più o meno rapidamente nel resto del mondo. L’Unione europea comincia a introdurne lo spirito nel 1985, con la direttiva sulla Via riguardante le singole opere. Nel giugno 2001 l’Unione fa un passo molto più coraggioso: estende il processo partecipativo dalle singole opere alla totalità dei piani e dei programmi. Nasce così la Vas, cioè la Valutazione di impatto ambientale strategico. Il fatto significativo è che l’Italia è ancora alle prese con il recepimento formale della prima direttiva Ue, quella del 1985. Se ne può dedurre quanto ci sia ancora estranea la rivoluzione culturale che ha cambiato il mondo negli ultimi trent’anni.
La storia dell’attraversamento del collegamento di Øresund ci fa capire concretamente dove va l’Europa mentre noi ci azzuffiamo intorno al mito del Ponte.
Lo stretto di Øresund, nel Mare Baltico, è un braccio di mare di 9 km che separa la Danimarca dalla Svezia. Nel 1991 i due Paesi decidono di esaminare le possibilità di migliorare i collegamenti, effettuati fino ad allora dai traghetti. Comincia così un processo che si svolge in due fasi. La prima va dal 1991 al 1995 ed è interamente occupata dal processo decisionale, che diventa un tutt’uno col processo progettuale. Il processo coinvolge tutti gli strati della popolazione, dai tecnici agli ambientalisti, dagli economisti agli urbanisti, dalle società di ingegneria agli enti di ricerca. Al termine della prima fase viene approvato il progetto esecutivo.
La seconda fase riguarda la costruzione che avviene senza alcuna variante e senza aumenti di costo e dura 5 anni, dal 1995 al 2000. L’infrastruttura viene suddivisa in diverse tipologie di lavori, per ognuna delle quali si bandisce una gara internazionale. In questo modo l’opera viene realizzata con il contributo delle più qualificate ditte, danesi e svedesi, americane e inglesi, francesi e tedesche.
Così, dopo 10 anni, nel luglio 2000, viene inaugurato il collegamento stabile, viario e ferroviario, lungo 16 km, che collega le città di Copenaghen e di Malmö, unendo così l’Europa continentale e la Scandinavia.
In che cosa consiste questo attraversamento? L’idea iniziale di un lunghissimo ponte viene ben presto abbandonata per il suo pesante impatto ambientale e per i costi non remunerativi. Dopo una lunga serie di proposte e controproposte, alla fine emerge una soluzione che originariamente non era stata neppure prevista: non un ponte né un tunnel, ma un sistema articolato di attraversamenti terrestri, aerei e sotterranei, resi possibili dalla realizzazione ex novo di una vera e propria isola, posta nel mezzo dello stretto di Øresund. Quest’isola ha finito col costituire un elemento di arricchimento dell’ecosistema baltico. Inoltre l’innervamento urbanistico della complessa e capillare rete di accesso permette di progettare uno sviluppo della conurbazione Copenaghen-Malmö in maniera tale che oggi vi si sta sviluppando la più dinamica BioCity d’Europa. Il progetto viene recepito nel programma europeo Ten (Trans European Network) che disegna la nuova rete di mobilità dell’Europa unita.
Il costo complessivo dell’opera è stato di 3,2 miliardi di euro. L’intera infrastruttura è stata costruita senza contributi economici da parte dei due governi; se si esclude un apporto quasi simbolico dell’Unione europea, l’intero finanziamento è stato ottenuto da prestiti e obbligazioni che attualmente hanno il rating della tripla A, e che saranno interamente ripagati con i proventi dei pedaggi.
Il processo decisionale partecipativo ha prodotto: una estrema rapidità di tempi; un progetto molto innovativo nella concezione e ricco di contributi tecnologici; un impatto ambientale minimo, con alcuni aspetti addirittura positivi; una capacità di autofinanziamento praticamente al 100%; una totale condivisione dell’opera da parte dei cittadini.
Saremo capaci anche noi di inaugurare qualcosa di nuovo sullo Stretto di Messina nei prossimi 10 anni? È altamente improbabile. Infatti mentre la Via affronta i problemi e li trasforma in opportunità di sviluppo, la Legge-obiettivo decide solo di rimuovere le difficoltà.
Vediamo così che il Cipe ha stabilito che bisogna concentrarsi solo sulla soluzione proposta dalla Società, abbandonando ogni ipotesi alternativa. In questo modo non c’è un risparmio di tempo, caso mai è il contrario, perché prima o poi sarà inevitabile dare risposte trasparenti ed esaurienti alle sostanziali obiezioni degli advisors. Poi, se tutto va bene, entrerà in scena il General Contractor. E a questo punto si aprirà una fase oscura perché si sarà stabilito il punto di partenza ma non quello di arrivo. Infatti, per sua natura, l’impresa privata mira solo a massimizzare i suoi profitti, magari gonfiando i costi e dilatando i tempi.
Per convincersi, basta considerare il disastro storico dell’Alta Velocità, centrato proprio sui General Contractor. Si partì nel 1991; in 10 anni si «doveva modernizzare il sistema dei trasporti» in Italia, con il contributo decisivo del project financing. Ora, nel 2002, dopo che i costi sono lievitati esponenzialmente e che del contributo finanziario dei privati non c’è più neppure l’ombra, rincorriamo la prospettiva, davvero avveniristica, di avere, nel prossimo decennio, una nuova coppia di binari fra Roma e Napoli e fra Firenze e Milano.
A questo punto una domanda diventa ineludibile: se l’obiettivo del governo è realmente quello di modernizzare il Paese, e non vi sono altri fini reconditi, perché puntare tutto a occhi chiusi solo su una soluzione aleatoria, quella del «Ponte della Società» e su una figura di dubbia legalità, quale quella del General Contractor? Se il governo vuole procedere in maniera moderna e trasparente allora non deve precludere alcuna alternativa, né di progetto né di procedura.
E allora, tenendo presente come termine di paragone il rafforzamento del sistema dei traghetti, bisogna cominciare a studiare seriamente l’attraversamento aereo a più campate e quello sotterraneo a diverse quote. È necessario non solo esaminare separatamente l’attraversamento stradale e quello ferroviario, ma bisogna studiare anche un sistema di trasporto pubblico, diverso dalla ferrovia, che renda possibile la nascita di una moderna area metropolitana. Ci sono poi le soluzioni articolate, come quella di Øresund. E non vi è poi nessuna ragione al mondo per non esplorare le stimolanti prospettive di un tubo flottante, detto anche «Ponte di Archimede»: in un tunnel sommerso a qualche decina di metri sotto il livello del mare la spinta idrostatica annulla la forza di gravità e tutto diventa più semplice. La storia dei ponti, raccontata dalle banconote dell’Europa, potrebbe un giorno arricchirsi di questa nuova tipologia.
E non ci sarebbe neppure ragione per non esplorare scenari più vasti, come quelli delle «autostrade del mare». Oggi ci sono sensibili progressi tecnologici nella navigazione marittima. Già da diversi anni sono in funzione traghetti con velocità di 40 nodi. Ma nuovi traghetti da 60 nodi sono in costruzione, mentre si sperimentano mezzi capaci di 80 nodi. Tutto il sistema di trasporti italiano può esserne profondamente influenzato. Potrebbe anche emergere un reale ruolo della Sicilia come ponte per il Mediterraneo. E l’attraversamento dello Stretto potrebbe essere inquadrato in una nuova dimensione, sia economica che funzionale.
E più in generale non si può continuare adignorare che oggi il sistema di trasporti sta effettuando una mutazione dalla quantità alla qualità. In prospet-tiva non serviranno più nuove strade. Nei centri urbani sono già oggi realizzabili sistemi di trasporto pubblico totalmente automatizzati. Ma anche sulle autostrade oggi invece del cemento troviamo sempre più informatica. Si stanno già diffondendo i sistemi per il controllo della velocità e della distanza degli automezzi, preludio per una guida stradale automatizzata che potrà assicurare più sicurezza, più capacità di trasporto e meno inquinamento.
Ma, per iniziare a studiare questi scenari, il governo deve disfarsi al più presto dei vecchi arnesi della Società dello Stretto e del General Contractor e deve guardare decisamente all’Europa. E allora, non solo deve avviare urgentemente e correttamente la Via per scegliere l’opera più idonea per l’attraversamento stabile dello Stretto, ma deve applicare da subito, senza più attendere tempi biblici, la Vas, Valutazione di impatto strategico, per definire un nuovo Piano generale dei trasporti, che ponga l’Italia in una nuova centralità fra l’Europa ed il Mediterraneo.
L’ambizione del governo di preparare un futuro per l’Italia è un proposito nobile e fortemente condivisibile, soprattutto da chi crede in un nuovo e più entusiasmante modello di sviluppo. Ma il primo passo è l’affrancamento da una tecnoburocrazia giurassica, capace solo di immaginare più cemento, più ferro e più asfalto in un Paese dove pure la creatività e l’ingegnosità hanno le loro radici storiche.
(Questo articolo è uscito per la prima volta su «il Mulino», n. 1/2002)
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