A pochi giorni dal decennale della scomparsa di Norberto Bobbio è naturale che si abbia la sensazione di assistere a una ripresa di interesse per il suo pensiero e per la sua eredità intellettuale. Diverse case editrici celebrano l’anniversario annunciando ristampe dei suoi libri e nuove collezioni di scritti, messe insieme scavando più a fondo nel giacimento di una produzione sterminata, disseminata tra atti di convegni, raccolte di saggi, riviste accademiche, periodici politici e quotidiani. Non c’è dubbio che tali iniziative, e gli incontri di studio che si terranno in diverse città italiane, ci daranno spunti per riflettere. Non solo su ciò che Bobbio ha pensato e scritto, ma anche su chi è stato. Cosa ha rappresentato per la cultura del nostro Paese questo schivo professore torinese. Anche i suoi ammiratori credo ammetterebbero che Bobbio non ha scosso i fondamenti di una disciplina, come fecero Bertrand Russell e Albert Einstein, oppure ispirato movimenti di pensiero di respiro internazionale, come fece Jean-Paul Sartre. Bobbio era uno studioso rigoroso, un ottimo insegnante, ma non fu la cattedra a dar peso alle sue parole. Lo ascoltavamo, ne leggevamo gli interventi, perché aveva ricordato a un Paese ancora tramortito da venti anni di dittatura e ferito dalla guerra che le idee sono importanti. Che sottovalutarne il potere può avere alla lunga esiti disastrosi. Mi pare che – a prescindere da quel che ciascuno pensi del suo valore come filosofo, o della fertilità della sua eredità ideale e politica – ci sia una valutazione che potrebbe essere largamente condivisa, ovvero che egli è stato il più influente intellettuale pubblico italiano della seconda metà del XX secolo. L’unico ad avere un ruolo paragonabile a quello che Croce ebbe nei decenni precedenti alla seconda guerra mondiale. L’autorità che tutti gli riconoscevano quando è morto – persino coloro che, forse proprio per questo, sentivano il bisogno di denigrarlo – dipendeva da tale ruolo.
Mi pare che – a prescindere da quel che ciascuno pensi del suo valore come filosofo, o della fertilità della sua eredità ideale e politica – ci sia una valutazione che potrebbe essere largamente condivisa, ovvero che egli è stato il più influente intellettuale pubblico italiano della seconda metà del XX secolo
Ripercorrendo i suoi numerosi scritti sulla figura dell’intellettuale si coglie immediatamente questo tratto caratteristico. La generazione cresciuta col fascismo si affaccia alla democrazia con un misto di entusiasmo e timore. Non è difficile comprendere il primo, ma anche il secondo ha avuto un suo peso. Un regime di mobilitazione totale permanente cede il passo a qualcosa di nuovo e di diverso, di cui diversi adulti non avevano esperienza diretta. Ciò avviene in un clima teso, che sembra annunciare nuovi e drammatici conflitti. Non sorprende che ci fosse chi invocava una pausa. Un momento di respiro. Rivendicando l’apoliticità. A costoro Bobbio rispondeva in modo secco, quasi sprezzante, scrivendo che questo atteggiamento si addice a due gruppi di persone: «coloro che non si occupano di politica, e coloro che non hanno idee politiche. Ma i primi sono, oggi, senza coscienza; i secondi sono, sempre, senza cervello». L’articolo da cui sono tratte queste parole è dell’agosto del 1945. Bobbio era già impegnato da alcuni mesi in una personale campagna in favore dell’impegno degli intellettuali in politica, che acquisterà progressivamente vigore nel corso del decennio successivo. Agli anni Cinquanta, infatti, risalgono gli interventi, in seguito raccolti nel fortunato volume einaudiano Politica e cultura (1955), che delineano e approfondiscono il modo di intendere il ruolo dell’intellettuale pubblico che Bobbio ha in mente, e che guiderà la sua azione.
Nelle riflessioni di Bobbio l’intellettuale appare come l’incarnazione del rigore nel metodo di approccio ai problemi. Paziente nel cercare le risposte dove esse si possono trovare, ponderando gli argomenti e prendendo in considerazione i fatti. Modesto nell’ammettere la possibilità che ci siano domande che non hanno una risposta razionale. Queste virtù sono funzionali a uno scopo che rivela la dimensione politica della cultura. Per Bobbio, «agli intellettuali non spetta il còmpito di rimasticare formule o di recitare cànoni. Spetta un’opera di mediazione. E mediazione non vuol dire sintesi astratta, sguardo olimpico, distacco magico, ma il guardar per ogni dove con l’interesse del più fervido degli spettatori e insieme col disinteresse del più rigido dei critici, interessati nello spettacolo, disinteressati, quanto le passioni lo consentono, nel giudizio finale».
Negli anni della guerra fredda, Bobbio affermava che la democrazia ha bisogno di intellettuali mediatori. Persone che siano in grado di promuovere il dialogo e di indicare la strada per raggiungere un compromesso virtuoso senza rinunciare a prendere posizione esprimendo il proprio punto di vista
Negli anni della guerra fredda, Bobbio affermava che la democrazia ha bisogno di intellettuali mediatori. Persone che siano in grado di promuovere il dialogo e di indicare la strada per raggiungere un compromesso virtuoso senza rinunciare a prendere posizione esprimendo il proprio punto di vista. Militanti, non partigiani. Imparziali, nei limiti del possibile, non neutrali. A dieci anni di distanza dalla sua morte, c’è da chiedersi se ci sia ancora spazio per l’intellettuale come mediatore. Se qualcuno ne avverta la necessità o ne soffra la mancanza.
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