Quale cifra, quale stile, quale Leit-motiv, contrassegnano una rivista – “di cultura e di politica” – come “il Mulino” che compie sessant’anni, e che ha attraversato la prima e la seconda repubblica, da De Gasperi a Berlusconi? Domanda non facile, tanto più che si tratta di una rivista che ha conosciuto molte forme, molte cadenze, molte direzioni e redazioni, molte rubriche, molti interessi; una rivista sulla quale hanno fatto le loro prime prove tre generazioni di intellettuali – nati fra gli anni Venti e gli anni Settanta –; una rivista, infine, non accademica, programmaticamente multidisciplinare, e per di più esposta alla contingenza, votata a pensare tempi non lunghi, a confrontarsi con gli eventi non quando sono già passati alla storia ma mentre fanno la storia. La risposta sta forse in una fedeltà alle origini, che attraversa i molti anni, che accomuna gli innumerevoli collaboratori, gli svariati specialismi: una fedeltà spontanea e sorvegliata, innata e acquisita, a quelle origini oggi remote che ci permettono di collocare “il Mulino” fra gli episodi più significativi, longevi e fecondi (dalla rivista è stata generata tutta la “galassia” del gruppo del Mulino), del rinnovamento postbellico della cultura italiana.
Quel rinnovamento fu operato da giovani che gli studi e le esperienze di vita avevano reso avvertiti della necessità di ripensare la cultura perché fosse in sintonia con la nuova forma della politica: la democrazia. Per essere non velleitariamente “moderna” la cultura doveva abbandonare la distanza e la separatezza delle accademie (impresa relativamente facile), e doveva però anche lasciarsi alle spalle l’eccessiva commistione con la politica, ovvero il ruolo demiurgico che le ideologie le attribuivano, esaltandola e al tempo stesso imprigionandola, costringendola a essere la deduzione di questa o di quella necessità. L’intellettuale critico – non solitario “chierico” né “organico” – ma non distaccato, anzi coinvolto e impegnato, dialogante e democratico, benché portatore di saperi rigorosi e non superficiali: questo è stato il protagonista del “Mulino” - visto ex post, come “intellettuale collettivo”.
Segnata da queste origini, la cultura del “Mulino” è stata, in sei decenni, storica, non storicistica; empirica e razionale, ma non tecnicistica; attenta alle contraddizioni ma non tentata di risolverle in una chiusa dialettica; civile, non militante. Chiusa ai dogmatismi della destra, ha sfidato senza paura quelli della sinistra – finché ci sono stati; e, dopo che la storia li ha travolti, non ha aperto nessuna caccia postuma ai fantasmi –; è stata laica ma, benché certamente non clericale, anche aperta al rinnovamento religioso e al cattolicesimo democratico. Ha inciso sulla politica italiana – quando ancora gli intellettuali potevano pesare sulla politica attraverso la formazione dell’opinione pubblica –, orientandola (non da sola, certo, ma esibendo qualche autorevolezza) verso il centrosinistra, l’Europa, le libertà civili, la difesa della democrazia e della Costituzione, le riforme istituzionali e elettorali; ha pensato dentro gli avvenimenti, facendosi carico delle molte possibili interpretazioni, delle molte direzioni verso cui potevano essere indirizzati. Ha cercato di essere all’altezza dei temi che l’agenda politica, sociale, culturale proponeva e imponeva, e anche di individuarne altri, latenti o incipienti.
Al di là del successo e dell’insuccesso di questa o quella battaglia, di questa o di quell’analisi, nella sua azione di stimolo e di dialogo la rivista non è stata mai compatta, quasi una sorta di Chiesa: anzi, ha conosciuto anche profonde divisioni fra gli intellettuali di diversa estrazione che la hanno animata. Ma nella sua interna pluralità, costitutiva e insopprimibile, ha cercato di essere fedele a un metodo, di combinare l’esercizio di un pensiero moderno, la curiosità intellettuale, la responsabilità civile, la cittadinanza democratica. E ancora si sforza in questa direzione, nei tempi difficili e sconcertanti che stiamo vivendo.
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