Secondo le stime dell’Istat presentate nel Rapporto benessere equo e sostenibile (Bes) lo scorso marzo, il 2020 ha lasciato in povertà assoluta 335mila famiglie in più rispetto all’anno precedente. Parliamo di un totale di circa 5,6 milioni di italiani che non riesce più a sostenere le spese per attività e consumi necessari. Il maggior numero di poveri vive nel Mezzogiorno, ma il Nord ha visto in quest’anno un incremento maggiore del tasso di povertà (9,4%) rispetto al Sud (11,1%) e al Centro (6,7%), dove l’incidenza è ritornata ai livelli del 2018. Come si nota nello stesso Rapporto Bes, l’incremento della povertà assoluta tra gli italiani si sovrappone a un quadro pregresso di disuguaglianze e precarietà finanziaria, soprattutto nel Sud Italia, dove nel 2019 circa il 15% delle famiglie (meno del 5% nel Nord) si trovava in una situtazione di grave deprivazione materiale e arrivava a fine mese con grandi difficoltà. In regioni come Calabria, Campania e Sicilia, nel 2019 più del 30% delle famiglie era a rischio povertà e, negli stessi territori, il rischio povertà risultava fortemente correlato al livello di disuguaglianza dei redditi.
A parte l’aggravarsi generale del benessere economico degli italiani, in questa nota analizzerò due possibili ragioni dell’incremento maggiore del tasso di povertà assoluta nel Nord rispetto al Sud Italia.
Esistono diversi indicatori per calcolare il livello di povertà. L’Istat ha adottato una misura basata sui livelli di consumo. Secondo questo indicatore, una famiglia può considerarsi in povertà assoluta se la sua spesa complessiva è inferiore a quella necessaria per acquistare un determinato paniere, definito come paniere di povertà assoluta, che comprende beni e servizi ritenuti essenziali in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e al comune di residenza. I beni inseriti in questo paniere sono raggrupati in tre macro-categorie: spese alimentari, abitative e residuali. Quest’ultime comprendono il minimo necessario per manutentare l’abitazione, vestirsi, spostarsi, istruirsi e mantenersi in buona salute.
Come nota l’economista Alfonso Rosolia in questa nota su «laVoce», la costruzione di questo indicatore si basa su alcune ipotesi di fondo – come la maggior parte degli indicatori statistici – che non sono neutri rispetto al risultato, e andrebbero forse adattati a contesti di shock atipici, come quello che stiamo vivendo. Infatti, analizzando le tre spese aggregate più nel dettaglio, quelle che hanno subito una più ampia contrazione sono quelle «residuali», ossia spese per abbigliamento, trasporti, servizi medici, istruzione. L’economista fa notare come queste spese si siano contratte (-19,4%) – più che come naturale effetto della contrazione dei redditi (-2,5%) – per ragioni pratiche legate alle restrizioni pandemiche: semplicemente, con le chiusure, non potendo spendere in beni come abbigliamento, trasporti, cinema, le famiglie non hanno speso. Questo vuol dire che, anche per le famiglie a basso reddito, la mancata registrazione di queste spese si è trasformata in risparmio. Il dato sembrerebbe confermato dallo stesso Rapporto Bes, in cui si nota come i risparmi delle famiglie siano quasi raddoppiati rispetto al 2019 (15,8% vs 8,2%).
Conseguentemente alle misure di restrizione, più stringenti nel Nord Italia, soprattutto all’inizio della pandemia, la spesa "residuale" delle famiglie potrebbe essere diminuita di più nelle regioni del Nord
Come questo incide sui dati della povertà nel Nord e nel Sud? Conseguentemente alle misure di restrizione, più stringenti nel Nord Italia, soprattutto all’inizio della pandemia, la spesa «residuale» delle famiglie potrebbe essere diminuita, proporzionalmente, di più nelle regioni del Nord che in quelle del Sud. Il dato sull’incremento dell’incidenza della povertà mostrato dal Rapporto Bes potrebbe quindi riflettere l’eterogeneità dei livelli di contrazione di questa spesa a livello territoriale. Se così fosse, e per esserne certi dovremo aspettare le nuove stime sui risparmi delle famiglie, vorrebbe dire che anche coloro con redditi medio-bassi, a fronte di un dato più alto sulla povertà, sono in realtà riusciti ad aumentare i risparmi. Questo si aggiunge ad altri due dati noti: i) quello sull’economia sommersa – per i lavoratori a nero, 3,7 milioni, concentrati soprattutto nel Mezzogiorno (19,4% del valore aggiunto), risparmiare, in questi mesi di pandemia, non è stata neanche un’opzione, i lavoratori senza contratto hanno avuto scarsissimi influssi di denaro; ii) già nel 2019 il 55% delle famiglie nel Sud Italia non riusciva a risparmiare, circa il 10% in più delle famiglie del Nord Italia. Le disparità nella capacità a risparmiare si riflette in un accumulo impari di ricchezza – la ricchezza netta media pro capite nel Mezzogiorno è circa la metà di quella media pro capite nel Nord Italia –, necessaria per trasferire opportunità e investire in attività produttive.
L’aumento dell’incidenza della povertà nel Nord Italia potrebbe altrimenti rispecchiare un trend generale dei Paesi sviluppati, in cui l’aumento dei tassi di povertà e di disuguaglianza sono spinti da un aumento di questi indicatori nei grandi centri urbani, in Italia concentrati soprattutto nel Centro Nord. Diversi studi in letteratura economica ci segnalano che negli ultimi 15 anni le disuguaglianze aumentano in misura maggiore all’interno delle stesse regioni e città (between versus within inequality), generando segregazione. Si acquiscono le differenze tra città virtuose e città meno produttive, e tra quartieri ricchi e quartieri marginali. Questo aumento delle disuguaglianze nei centri urbani è dovuto a una polarizzazione crescente dei salari tra low and high-skill workers, cioè lavoratori a bassa e ad alta specializzazione. I salari dei primi hanno visto un incremento quasi pari a zero negli ultimi anni, a fronte di un costo della vita crescente, mentre i salari degli ultimi sono aumentati. Salari stagnanti per i primi e un livello di prezzi crescenti, dovuto soprattutto all’aumento degli affitti nelle grandi città (si pensi ad aree metropolitane come Milano, dove i prezzi delle case, piuttosto che diminuire sono aumentati negli scorsi mesi) potrebbero essere la causa del crescente numero di individui in condizioni di povertà assoluta nel Nord Italia.
Il dato potrebbe più semplicemente rispecchiare la crisi che molti settori produttivi, concentrati al Nord, stanno attraversando, e la conseguente perdita di lavoro di molti dipendenti e indipendenti
Ancora, il dato potrebbe più semplicemente rispecchiare la crisi che molti settori produttivi, concentrati al Nord, stanno attraversando, e la conseguente perdita di lavoro di molti dipendenti e indipendenti. I dati Istat sulla disoccupazione, di trimestre in trimestre, non sono infatti confortanti. Infine, misure precedenti alla pandemia, come il reddito di cittadinanza, hanno sicuramente sostenuto i redditi più bassi, ma si sono dimostrate particolarmente efficaci per le famiglie del Sud che, considerato il costo della vita, possono far fronte alle spese con il solo supporto di questo sussidio.
In questa nota abbiamo brevemente esposto alcune possibili ragioni del maggiore incremento del numero di famiglie in povertà assoluta al Nord rispetto al Sud Italia. La disponibilità di dati a livello di municipalità in futuro sarà essenziale per capirne meglio le dinamiche con un approccio quantitativo. Studiare le cause dietro questo numero è importante in un Paese in cui il la povertà assoluta cresce dal 2005, ed è il primo tra i Paesi Ocse per disuguaglianze territoriali, rispetto a una lunga serie di indicatori di benessere socio-economico.
Se i dati sulla povertà del Rapporto Bes riflettono un’inadeguatezza degli indicatori scelti rispetto alla situazione pandemica emergenziale, come notato da Rosolia, tra qualche mese, passate le restrizioni, l’aumento dell’incidenza di questo dato al Nord potrebbe svelare in realtà un aumento maggiore dei risparmi delle famiglie a basso e medio-reddito in queste regioni. L’aumento dei livelli di risparmio, nella fase di ripresa, potrebbe essere cruciale per quelle famiglie i cui membri hanno perso il lavoro e non dispongono di un continuo influsso di reddito o di sostegni statali. Prima di mettere in atto delle politiche rivolte a combattare la povertà, è quindi necessario analizzare le diverse componenti dell’attività economica delle famiglie – consumi, risparmi e investimenti – per meglio definire il target delle politiche di sostegno.
D’altra parte, per permettere ai «nuovi poveri urbani» di far fronte all’alto costo della vita nelle grandi città del Centro Nord, a fronte di salari stagnanti, in particolare per quelli più bassi (e non potendo agire sui salari), sono necessarie politiche attive di sostegno come affitti accessibili, abitazioni fornite dallo Stato, insieme a un sistema strutturato di aiuti per redditi medio-bassi, per evitare segregazione e garantire un pari accesso alle opportunità – come l’accesso all’università o a particolari settori del lavoro – che spesso sono concentrate esclusivamente nei centri urbani.
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