La Corte costituzionale è (dovrebbe essere) composta da 15 giudici designati in maniera paritaria dai tre poteri: giudici supremi, Parlamento in seduta comune e presidente della Repubblica. Da sette mesi, però, la Corte costituzionale risulta composta da soli 14 membri, e ciò perché il Parlamento continua a non adempiere a un preciso e chiaro dovere costituzionale: eleggere un giudice costituzionale «entro un mese» dalla scadenza del mandato del giudice uscente. D’altronde, quando spetta al Parlamento eleggere il nuovo giudice, la probabilità che il plenum della Corte rimanga incompleto per un tempo assai lungo è più una regola che un’eccezione.
La ragione per cui non si è ancora proceduto all’elezione del giudice in sostituzione della presidente Silvana Sciarra risiede nel fatto che i tempi del Parlamento non coincidono con quelli previsti dalla Costituzione. Il che significa che il termine del mese a disposizione non è considerato come un tempo congruo al fine di assicurare un patto compromissorio per logiche spartitorie fra le stesse forze politiche. La conseguenza è lapalissiana: la scadenza è difficilmente rispettata. D’altronde, non essendovi alcuna sanzione, il termine è ordinatorio e non già perentorio.
Col passare dei mesi, appare sempre più plausibile che i partiti che sostengono l’attuale maggioranza vogliano posticipare il più possibile l’elezione del nuovo giudice, estendendo il termine fino a 13 mesi, almeno fino al 16 dicembre 2024, quando scadranno i mandati dei giudici Barbera, Modugno e Prosperetti. In quel momento, il Parlamento dovrà eleggere tutti e quattro i giudici, poiché quelli in scadenza sono stati eletti tutti dal Parlamento. E non era mai accaduto che a uno stesso organo spettasse il rinnovo quasi completo di un terzo della composizione della Corte.
Altrettanto plausibile è ritenere che, nei sette mesi già trascorsi, i vari scrutini siano stati condotti non tanto per trovare una convergenza su una figura autorevole da eleggere, quanto per abbassare il quorum necessario per l’elezione.
È plausibile ritenere che, nei sette mesi già trascorsi, i vari scrutini siano stati condotti non tanto per trovare una convergenza su una figura autorevole da eleggere, quanto per abbassare il quorum necessario per l’elezione
Che il ritardo con cui il Parlamento in seduta comune procede nell’elezione dei giudici costituzionali rappresenti una costante non vuol dire che tutto ciò debba essere accettato come prassi e debba avvenire nell’indifferenza generale delle istituzioni, in particolare del Parlamento in seduta comune e del suo presidente, che è il presidente della Camera dei deputati.
È evidente che la politica non può piegare il testo costituzionale ai propri fini e alle proprie esigenze. Ciò vale a maggior ragione se si considera che la situazione in cui la Corte è costretta a lavorare a ranghi ridotti non è certamente meno grave rispetto a quella in cui non riesce del tutto a farlo nell’ipotesi di stallo. Un collegio incompleto (anche per una sola cessazione non seguita da una rapida elezione) viola il valore fondamentale alla base del quorum strutturale che è di 11 giudici: tale numero indica la soglia di funzionamento minima in grado di garantire la presenza di almeno un componente di tutte e tre le estrazioni. La Corte, così composta, non è in grado di svolgere pienamente la sua funzione, mancando dell’apporto completo di tutte le competenze, esperienze tecniche, sensibilità culturali e ideali che convergono nella predisposizione della decisione elaborata in camera di consiglio.
La violazione continuativa del principio di completezza può causare una serie di problemi: sovraccarico di lavoro, rischio di accumulo di arretrati e possibili divisioni interne alla Corte. Queste divisioni possono derivare da una presidenzializzazione delle decisioni, poiché una Corte composta da 14 giudici può arrivare a una decisione risolutiva solo grazie al voto del presidente, che si esprime per ultimo con un voto decisivo in caso di parità.
Se i rischi attuali per un’istituzione fondamentale come la Corte costituzionale sono già considerevoli, le criticità aumenterebbero in modo esponenziale se il ritardo nell’elezione del giudice già cessato continuasse fino al prossimo dicembre. In tal caso, il rischio di blocco dell’istituzione diventerebbe quasi certo. Infatti dal 16 dicembre 2024 – se si dovesse protrarre l’assenza del giudice a oggi assente – mancheranno quattro giudici su quindici, e persino l’impedimento temporaneo a partecipare di un solo giudice, a causa di un avvenimento anche banale, potrebbe bloccare i lavori della Corte per mancato raggiungimento del numero minimo di componenti obbligatoriamente presenti per il funzionamento dell’istituzione.
Le criticità aumenterebbero in modo esponenziale se il ritardo nell’elezione del giudice già cessato continuasse fino al prossimo dicembre
La funzione di maggioranze elevate (2/3 dei membri del Parlamento in seduta comune nei primi 3 scrutini, 3/5 per i successivi) è quella di ridurre al minimo la politicizzazione dell’elezione. È importante sottolineare che la democrazia costituzionale impone limiti al potere e alla maggioranza, specialmente quando si tratta di organi di controllo come la Corte costituzionale. L’assegnazione delle cariche basata su logiche partitico-spartitorie comporta una distorsione delle regole costituzionali. È significativo quanto accaduto nella penultima elezione dei giudici di competenza parlamentare. Si è proceduto con ritardo per l’elezione di due giudici fino a quando la scadenza del terzo, alla fine del novennio, ha assicurato l’elezione contemporanea di 3 componenti (era il 16 dicembre 2015, a distanza di 18 mesi dalla prima e ben 5 mesi dopo l’ultima scadenza). L’ultima è avvenuta in solitaria perché le dimissioni di Giuseppe Frigo (7 novembre 2016) non erano accorpabili con nessun’altra elezione; per addivenire alla designazione di Luca Antonini sono stati necessari 20 mesi, che costituiscono il più lungo periodo di vacanza dalla nascita stessa della Corte costituzionale.
Considerando ciò che spesso accade – e molto probabilmente continuerà a verificarsi – e richiamando un’autorevole dottrina giuspubblicistica (Giuseppe Guarino espresse questa «raccomandazione» nei primi anni Cinquanta), il ritardo nella nomina parlamentare dovrebbe essere risolto con la convocazione da parte del presidente delle Camere riunite in seduta comune, con l’obbligo di votare in modo continuativo, facendo «ripetere ininterrottamente gli scrutini senza sospenderli e senza porre termine alla seduta fino a quando non sia prodotta la maggioranza richiesta». Questo è ciò che avviene, per esempio, nell’elezione del presidente della Repubblica, con la conseguente sospensione dei lavori parlamentari; in tal modo, il Parlamento in seduta comune sarebbe spinto a prendere una decisione rapida per non restare «ostaggio» del suo presidente.
Il 16 dicembre prossimo, le Camere saranno impegnate nella discussione di un testo (la legge di bilancio) che poi, molto probabilmente, subirà modifiche attraverso un massiccio emendamento su cui sarà richiesta la fiducia. È probabile che la prima udienza pubblica del 2025 sia fissata per il 7 gennaio. Considerando che il calendario tra la sessione di bilancio e le festività natalizie è già estremamente fitto e che mai un giudice di estrazione parlamentare è stato eletto nel rispetto del termine del mese dalla vacanza, è fondamentale affrontare anticipatamente il rischio associato allo stallo del funzionamento della Corte. È ora che chi le ha eserciti responsabilmente le proprie competenze e anticipi il più possibile le implicazioni di una situazione potenzialmente troppo grave e allarmante, anche solo a prenderla in considerazione.
Così come va stigmatizzata la sola possibilità teorica che il momento elettorale che dovesse coinvolgere tutti e quattro i giudici veda come unici protagonisti le forze governative. Con un poker del genere perderebbero tutti.
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