Non è semplicemente una questione di terrorismo quanto sta succedendo, perché il terrorismo islamista ha caratteristiche peculiari. In Europa ci sono stati nei decenni passati altri tipi di terrorismo, basti citare quello basco e quello nordirlandese, per non risalire a quello verificatosi negli anni Sessanta nel Sudtirolo/Alto Adige. Si trattava però di un’altra cosa: erano vicende storiche, molto meno cruente, con un obiettivo chiaro e facilmente identificabile per quanto discutibile come giustificazione di azioni violente da guerriglia. Avevano come bersaglio uno specifico nemico, cioè un potere politico che veniva considerato – lasciamo stare se a torto o a ragione – il responsabile di uno stato di cose che avrebbe potuto essere cambiato solo che si fosse vinto. Nei casi citati si trattava di rivendicazione di movimenti indipendentisti.

Certo più complesso da inquadrare il terrorismo fra anni Settanta e anni Ottanta del secolo scorso degli estremismi di destra e di sinistra. In quel caso l’obiettivo era assai vago, il cambio di regime, lo si chiamasse o meno rivoluzione. Una meta utopica, ma almeno in astratto raggiungibile e già raggiunta in alcune circostanze in un passato non molto lontano.

L’obiettivo del terrorismo islamista è invece così globale e catastrofista da essere del tutto sfuggente. A che cosa mirano i programmatori e gli esecutori delle stragi di cui siamo testimoni? Dire che vorrebbero la sconfitta dell’Occidente e la rinascita del califfato islamico non delinea una strategia, e neppure a ben considerare una utopia in senso proprio. La meta è così lontana e irraggiungibile, così escatologica, se ci si passa il termine, da apparire totalmente irrazionale e improbabile. Per essere perseguita in maniera credibile e almeno astrattamente plausibile richiederebbe un lavoro di consolidamento di qualche base statuale da costruire e far progredire e ciò avrebbe bisogno di una almeno strumentale pace che desse luogo a qualcosa di simile alla famosa scelta staliniana del «socialismo in un solo paese». Sembrerebbe postulare il bisogno di un confronto più dialettico con quello che viene considerato l’avversario, il demonio, cioè la modernizzazione occidentale che sta pervadendo il mondo e che sfida continuamente l’emigrazione islamica verso quei paesi occidentali ove essa si è affermata.

Di tutto questo non si vede nulla, almeno a stare a quel che è possibile percepire da noi. Allora non è un caso che l’arma fondamentale di questo «attacco all’occidente» siano i kamikaze, cioè gente che si immola non conquistando nulla né per sé né per la propria causa, mostrando solo che si è in grado di fare del male, molto male. Siccome questa non è una proposta politica, si può dubitare che riesca ad andare oltre il reclutamento di chi cerca la vendetta in un proprio suicidio che annienti simboli di ciò a cui vengono imputate le responsabilità della propria infelicità.

Quale strategia può mettere in campo l’Europa per contrastare questa ventata di nuovo anarchismo, perché in definitiva di questo si tratta anche se il sostrato religioso-fanatico dell’islamismo e le sue radici culturali specifiche lo distinguono dall’anarchismo tradizionale dell’Europa (che, peraltro, ha anche tutta una tradizione pacifica e aliena dall’intervento dimostrativo violento).? Ovvio che qualsiasi discorso che mira a prendere in considerazione le profondità del fenomeno non vuole affatto negare che sia necessaria una difesa attiva sul piano repressivo e della forza legittima di cui sono depositari gli Stati. Si vuol solo dire, per banale che sia, che non è sufficiente, come non lo è neppure l’utopismo che pensa che integrare i disagi presenti e in crescita nelle nostre società sia un obiettivo facilmente perseguibile e in tempi rapidi, solo a volerlo.

Si tratterà piuttosto di investire sul ripensamento complessivo delle strutture che hanno retto la tenuta delle nostre società e che adesso sono in crisi. Ripensare il sistema dei presunti diritti, per cui chi non ha accesso a livelli di consumo molto alti è un minorato sociale, ricostruire le reti di convivenza che impongono reciproci doveri di cooperazione e solidarietà, rilanciare spazi di educazione culturale in cui sia possibile diffondere riflessioni sulla complessità del vivere e sulla necessità di lavorare in queste condizioni possono apparire strumenti essi stessi utopistici e scarsamente efficaci.

Eppure se pensiamo al livello della cultura europea in termini di educazione scolastica, di presenza sui grandi media della comunicazione, di capacità delle classi dirigenti di dare testimonianza di valori, possiamo facilmente capire quale sia la crisi su cui si innesta, in Europa almeno, il terrorismo islamista. Quello che produce i fanatici del calcio che urinano su una mendicante e sfasciano monumenti, le ideologie dello «sballo», il mito che misura il successo e il rilievo sulla base del denaro inteso come montagna di denaro (qualcuno vuole riflettere su cosa significano oggi gli stipendi le buonuscite milionarie dei manager?), è un terreno che nutre benissimo il fanatismo di chi cerca il gesto dirompente e la (presunta) bella morte.

Insomma il terrorismo islamista è ben più che una questione di polizia, ma proprio per questo potrebbe anche essere una sfida che costringa l’Europa in questa crisi di inizio secolo a ripensarsi davvero.

 

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