Il 9 maggio è, anche quest'anno, la festa dell'Europa. Ma non nascondiamoci dietro a un dito: siamo in pochi a festeggiarla, ancor meno a sapere esattamente a cosa si rende omaggio. La storia dell'integrazione – con le sue vicende e i suoi personaggi – ha sempre faticato a entrare nei manuali scolastici, a fecondare l'immaginario collettivo dei cittadini italo-europei.
È una festa affidata alla passione di qualche professore di storia; una ricorrenza che in Italia può contare sull'europeismo (talvolta un po' di facciata) di enti e istituzioni locali e sulle dichiarazioni (spesso un po' retoriche) di sporadici politici nazionali. Personalmente non mi stupisce che il compleanno di una comunità economica creata per la gestione sovranazionale di risorse carbosiderurgiche fatichi a suscitare una diffusa commozione civile. Ma le ragioni di questa festa risiedono e andrebbero cercate altrove: da un punto di vista storico, il 9 maggio 1950 segna oggettivamente un punto di non ritorno, l'inizio di una vera e propria rivoluzione – studiando storia è persino possibile innamorarsi dell'Unione europea.
Sessantatré anni or sono, sulle ceneri della Seconda guerra mondiale, prendevano forma le geometrie della Guerra fredda. In quel contesto gli interessi americani e le priorità della Francia non potevano che scontrarsi: i primi spingevano per una Germania forte e sovrana, cuore di un'Europa baluardo anti-sovietico, mentre la quasi totalità dei cittadini francesi era comprensibilmente terrorizzata da questa prospettiva. Intanto la ricostruzione tedesca continuava a ritmo sempre più sostenuto e Bonn si preparava a chiedere ai governi alleati un aumento della propria quota di produzione dell'acciaio: l'autorità sovranazionale della Ruhr, una soluzione temporanea trovata dal governo francese per potersi assicurare il carbone tedesco, doveva essere smantellata per venire incontro alle crescita industriale degli sconfitti – si tenga presente che allora il carbone forniva il 70% dell'energia europea.
L'Europa politica che conosciamo nasce dall'esigenza di risolvere un rebus internazionale: fu la mente di Jean Monnet a escogitare una soluzione europea
L'Europa politica che conosciamo nasce anzitutto dall'esigenza di risolvere questo rebus internazionale: fu la mente di un celebre sconosciuto di nome Jean Monnet a escogitare una soluzione europea. Segretario generale aggiunto della Società delle nazioni, presidente del Comitato di coordinamento interalleato, commissario al Piano di ricostruzione economica della Francia, Monnet è stato uno degli uomini d'azione più influenti del Novecento, pur senza mai ricoprire alcun incarico governativo. Fu lui a proporre al governo francese la messa in comune, sotto il controllo di un'alta autorità europea, delle risorse franco-tedesche di carbone e acciaio. Il ministro degli Esteri Schuman accettò la proposta e, in accordo con Adenauer, il 9 maggio 1950, a sorpresa, la rese pubblica.
La dichiarazione Schuman, che fonda concettualmente l'Europa a integrazione funzionalista, è un breve documento di un'ambizione estrema, una lezione di eticità pubblica e di visione politica che andrebbe letta ad alta voce in tutte le scuole del continente. Sin dalle prime righe emerge chiaro come l'integrazione settoriale in essa proposta non sia che il perno (verrebbe da dire: il pretesto) attorno al quale andrà a strutturarsi un progetto epocale. La semplice cogestione di risorse carbosiderurgiche veniva infatti inquadrata all'interno di un disegno ben più ampio e nobile, coincidente con il fine ultimo del pacifismo kantiano: la «pace mondiale». L'obiettivo non era l'istituzione di un'entità economica, bensì l'Europa. Il mezzo con cui realizzarla sarebbe stato quello dei piccoli passi, il primo dei quali consisteva nell'eliminazione di ogni rivalità tra Francia e Germania attraverso l'instaurazione di una «solidarietà di fatto», altrimenti detta «solidarietà di produzione». La prospettiva escatologica della «pace mondiale» passava dunque attraverso la definizione di due obiettivi genuinamente europei: uno immediato – la creazione di una comunità economica sovranazionale per risolvere la questione energetica franco-tedesca – e uno di lungo periodo – la «federazione europea», per evitare la riproposizione di questioni franco-tedesche in futuro.
L'altezza dei fini e il pragmatismo dei mezzi delineati dalla dichiarazione Schuman sono “storici” nella misura in cui segnano la fine della contrapposizione tra realismo e idealismo politico
L'altezza dei fini e il pragmatismo dei mezzi delineati dalla dichiarazione Schuman sono «storici» nella misura in cui segnano la fine della contrapposizione – tutta dottrinaria – tra realismo e idealismo politico; un cambio di prospettiva perpetuato dall'Europa politica per tutto il corso della sua storia: sospesa tra entità statuale e organizzazione internazionale, questo «oggetto politico non identificato» non ha mai smesso di mettere in crisi le teorie classiche della politica internazionale.
È innegabile, è vero, che l'Europa sia nata nella mente di una classe dirigente illuminata. Dispiacque e dispiace ai federalisti, da sempre critici verso l'Europa funzionalista perché non legittimata da un demos europeo – un fatto che, a maggior ragione, oggi non convince i variopinti guru della democrazia dal basso. Con la stessa onestà intellettuale bisogna però riconoscere che il blitz del ministro Schuman – il quale si assunse la responsabilità politica di pronunciare parole sgradite all'opinione pubblica del proprio Paese senza che nessun altro membro del governo avesse avuto la possibilità di leggere il testo della dichiarazione – non ebbe unicamente il merito di risolvere una crisi contingente, ma riuscì a catalizzare una soluzione di lungo periodo che, tenendo aperta la prospettiva federale, si dimostrò alla prova dei fatti economicamente vincente e politicamente risolutiva, riuscendo come se non bastasse a tracciare una strada specificamente europea in un contesto bipolare sempre più stringente.
Se si capisce questo, si capisce perché riflettere sul 9 maggio è, soprattutto oggi, di un'importanza capitale: significa partecipare, da figli, all'intuizione dei padri fondatori, porsi il problema di rinvigorire e rilanciarne il progetto, riappropriarsi con coraggio di una visione condivisa, comune e creativa del nostro futuro. In altre parole, il 9 maggio non dovrebbe essere la celebrazione di una rivoluzione avvenuta, ma il promemoria di una rivoluzione in atto. Purtroppo, la scialba musealizzazione di questa ricorrenza non fa che confermarci la natura dell'attuale crisi europea (una crisi anzitutto culturale): ancor prima del consenso diffuso, tragicamente mancano all'orizzonte dell'Europa odierna figure politiche del calibro di Jean Monnet, di Altiero Spinelli, di Jacques Delors; uomini che, nella diversità delle proprie convinzioni, azioni e ruoli, percepivano l'Europa come una rivoluzione presente, come la loro battaglia generazionale.
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