La più antica legge europea sul copyright - lo Statute of Anne – si proponeva di incoraggiare gli “eruditi” a “scrivere e comporre utili libri” riconoscendo loro, contro la stampa, la ristampa e l’edizione non autorizzata, un’esclusiva della durata di 14 anni, ottenibile tramite registrazione e raddoppiabile solo su richiesta dell’autore. Anche se si dovette attendere il 1774 perché la Camera dei Lord, in veste di giudice di ultima istanza, rigettasse definitivamente la pretesa di assimilare il copyright a una proprietà perpetua, il Parlamento inglese era riuscito a contenere una disciplina nuova e complessa in poco meno di sei pagine.
Poco più di tre secoli dopo, lo scorso 26 marzo, il Parlamento europeo, per il testo della direttiva “Il diritto d'autore nel mercato unico digitale”, ha avuto bisogno di 150 pagine. Ma la prolissità, in virtù della quale è facile occultarvi clausole dettate da interessi particolari e offrirne un’informazione più o meno volontariamente fuorviante, non è il meno grave dei suoi difetti.
Il diritto d’autore dell’età della stampa, almeno in linea di principio giustificato come una difesa degli autori contro gli editori, era una regolamentazione industriale relativamente facile da applicare, perché coinvolgeva solo i pochi che partecipavano al gioco della produzione letteraria. Oggi, invece, la rivoluzione digitale e telematica ha livellato buona parte delle barriere tecnologiche ed economiche che separavano gli autori e gli editori dai lettori: in rete il copyright riguarda tutti, perché tutti, come “scrilettori”, condividono, citano e rielaborano opere proprie e altrui. E quanto più la rete pervade le nostre vite, tanto più diviene probabile che l’antico monopolio incida, prima che sulla libertà d’iniziativa economica, sulle nostre libertà di espressione, di ricerca e di insegnamento. Ma se le norme che governano le libertà fondamentali di una società democratica divengono talmente complesse e oscure da essere applicabili con certezza solo da chi può permettersi costosi avvocati e lunghi processi, non più di democrazia si tratta, bensì di plutocrazia.
Oggi lo sfruttamento del copyright, prolungato fino a settant’anni dopo la morte dell’autore ed esteso a una pluralità di oggetti e di aspetti ben al di là dei libri e degli scritti dello statuto britannico, è prevalentemente affare degli editori. La stessa quantità e complessità delle esclusive e delle eccezioni indica che i legislatori sono stati più propensi a soddisfare via via questo o quel gruppo di interesse, che a interrogarsi su come ripensare il diritto dell’autore in un mondo di scrilettori nel quale i mediatori tradizionali non sono più indispensabili e l’antico monopolio esce dalla tipografia per esporre tutti al rischio di una censura economica pervasiva.
Gli articoli più controversi della direttiva europea sono due: l’11, ora rinumerato come 15, e il 13, ora rinumerato come 17, altrimenti noti come link tax (diritti accessori per gli editori) e upload filters (filtri di caricamento).
La link tax attribuisce agli editori una nuova esclusiva, che permetterà loro di chiedere un compenso per la citazione online degli articoli giornalistici, a meno che non si tratti di usi privati e non commerciali, di semplici link o di “singole parole o estratti molto brevi”. Che cosa s’intenda per “non commerciale” - per esempio quando un utente riproduce un testo senza scopo di lucro, ma su una piattaforma che trae ricavi da inserzioni pubblicitarie – è poco intuitivo per il non specialista; e per stabilire quale sia la misura di un estratto “molto breve” si dovrà sprecare tempo e denaro pubblico e privato in contenziosi giudiziari. Nel frattempo, nell’incertezza, le citazioni con link divengono pericolose, a danno non solo della visibilità di qualche prodotto editoriale, ma dell’ipertestualità che ha fatto del Web uno strumento formidabile di interconnessione e di ricerca.
L’articolo ora rinumerato come 17 altera il regime vigente, per il quale il primo responsabile di una violazione del diritto d’autore è chi carica online del materiale protetto mentre chi amministra la piattaforma ha solo il dovere di rimuoverlo una volta avvertito del misfatto. Ora una nuova figura appositamente creata, il “prestatore di servizi di condivisione di contenuti online”, è responsabile delle violazioni del copyright compiute dai suoi utenti, a meno che non dimostri di aver compiuto i massimi sforzi per ottenere una licenza sui materiali caricati, o per “renderli indisponibili […] secondo elevati standard di diligenza professionale di settore”, fatte salve indulgenze ed eccezioni per imprese piccole, o povere, o giovani, e per usi a scopo di citazione, critica, rassegna o parodia. Anche se l’espressione upload filters non compare nella versione finale della norma, il suo effetto è chiaro: poiché non è possibile ottenere una licenza su tutto, la “diligenza professionale” imporrà di usare sistemi automatici di filtraggio, o, meno eufemisticamente, di censura privata preventiva, ai quali gli utenti potranno sfuggire solo installandosi un server domestico.
Non paradossalmente né sorprendentemente Alphabet, che controlla Google, ha già prodotto e reso disponibile sul mercato un sistema di filtri di caricamento per chi non desidera acquistare quello offerto da Audible Magic, la quale a sua volta ha fatto lobbying a favore dell’ex articolo 13 ora 17.
In generale, Facebook, Apple, Microsoft e Google saranno avvantaggiati dal regime europeo, perché i suoi costi e oneri soffocheranno i loro potenziali concorrenti nella culla: l’Internet dei media sociali proprietari centralizzati e manipolatori – che a parole preoccupa il legislatore europeo – ne uscirà rafforzato. Del resto, l’interesse degli editori e dei produttori multimediali che hanno sostenuto la direttiva non è propriamente la demolizione degli oligopoli: è la partecipazione ai loro profitti, anche a costo di farsi disegnare un regime ormai più simile al sistema protomoderno del privilegio librario che al copyright dello Statute of Anne. Anche allora – contro la libertà di espressione di tutti gli altri – l’interesse politico alla censura si sposava con l’interesse economico al monopolio, ma con una differenza: nel XVI secolo a nessuno sarebbe venuto in mente di imporre una censura privata preventiva al solo scopo di compensare gli scriptoria incapaci di stare al passo con la stampa.
La direttiva europea non tutela solo le rendite degli editori, ma riconosce anche alcune eccezioni a favore di un uso semi-privato della ragione, confinato fra i muri di biblioteche ed enti di ricerca, tanto che alcuni gruppi d’interesse non editoriali (fra i quali l’Associazione Italiana Biblioteche, che ha preso posizione in modo distinto da IFLA e LIBER) l’hanno abbracciata nella sua interezza. Queste eccezioni riguardano, per esempio, il cosiddetto text and data mining, gli usi didattici, la libertà della riproduzione di opere di pubblico dominio e della digitalizzazione, da parte di biblioteche e musei, di lavori fuori commercio. Peccato, però, che siano per lo più formulate in modo da riprendere con una mano quanto concedono con l’altra: perché non posso sottoporre ad analisi automatiche dei testi che ho il diritto di leggere a meno che non lavori per istituti di ricerca e di tutela del patrimonio culturale? E perché riconoscere la libertà dell’uso didattico, ma subordinandola al permesso da parte degli editori e alla variabilità delle legislazioni statali?
Tecnicamente, la direttiva europea è un’occasione mancata. Ancora una volta si è evitato di chiedersi se, per sostenere socialmente gli autori, siano immaginabili alternative al monopolio legalmente imposto, se la creazione, la condivisione e la rielaborazione delle opere dell’ingegno siano riducibili – salvo eccezioni – a questioni di rendita e di profitto, e se, infine, non valesse la pena esplorare un’impostazione inversa, nella quale l’esclusiva fosse l’eccezione e il pubblico dominio la norma.
Politicamente, però, è qualcosa di peggio. Quanti hanno scritto e riscritto le norme sotto dettatura, quanti le hanno sostenute per proteggere le loro rendite; quanti, pur premendo per eccezioni a favore di biblioteche, università e musei, si sono accontentati delle briciole cadute dal tavolo da gioco di monopoli vecchi e nuovi, hanno un carattere comune: ciascuno di loro ha agito per il particolare, lasciando l’universale a se stesso. In un momento in cui si fa mostra di preoccuparsi per il risorgere del particolarismo violento di nazionalismi e fascismi, lo spettacolo di un legislatore europeo che abbandona la difesa delle libertà democratiche a una deputata di un partito che si chiama “pirata” e che si fa sospingere dall’una e dall’altra parte senza tentare di parlare a tutti e per tutti, non è soltanto triste: è politicamente pericoloso.
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