La barca di Pietro in pochi giorni si è riempita oltre ogni misura, tanto che sembra essersi trasformata nell’arca di Noè: dimora e rifugio per traghettare il mare periglioso che stiamo attraversando. Come d’incanto la Chiesa sembra aver scoperto di poter essere anche quel “tutti-accoglie” nel quale il samaritano conduce l’uomo ferito per prendersi cura di lui (cfr. Luca 10, 29-37). Paradossi del cristianesimo.
Con una manciata di gesti e parole a braccio, svincolati dai protocolli e dalle ingessature della tutela curiale, papa Francesco ha connesso l’inizio del suo esercizio del ministero petrino con il profilo profetico della rinuncia da parte di Benedetto XVI. La consapevolezza evangelica dell’urgenza dell’ora presente per il futuro del cattolicesimo, e della destinazione al mondo della missione della Chiesa, è probabilmente il tratto di maggiore prossimità che unisce queste due figure così profondamente diverse fra loro. Quello che è sfuggito ai più è che vivere la fede nel contemporaneo come letizia dell’Evangelo di Gesù è impresa maledettamente ardua: chiede spiriti forti e intelligenza dell’animo, e non è certo affare per gli smidollati. Non meno di questa è l’altezza a cui Francesco ha vincolato il suo ministero di vescovo di Roma. Si è consegnato alla sua gente, perché il solipsismo del sacramento e della giurisdizione mortificano il servizio ministeriale nella Chiesa, anche quello del papa. Così facendo ha confermato nella fede i discepoli e le discepole del Signore; mettendo in risalto che il destino della Chiesa è un bene affidato alla cura di tutti coloro che credono.
Nel silenzio di una serata romana Francesco si è visto riconsegnare il suo ministero petrino dalle mani dell’intera comunità locale della Chiesa; perché è solo nella ricerca instancabile di questo riconoscimento della fede che il vescovo di Roma può costruire l’anello di congiunzione tra l’autorità dogmatica e l’autorevolezza pastorale del ministero che gli è stato affidato. E così tutti quelli che amano la Chiesa, anche quando si appesantisce di opacità che poco hanno a che fare con l’Evangelo, si sono ritrovati responsabili della trasparente corrispondenza del ministero di Pietro alla stolta e affettuosa tenacia della fiducia che Gesù ripone in lui – qualsiasi cosa accada. Non perché egli spadroneggi sulla loro fede, ma perché impari, ogni giorno di nuovo, a essere collaboratore della loro gioia (cfr. 2 Corinzi 1, 24).
Non di quella che si consuma nel bagliore lampante degli attimi fuggenti, o che si scambia sul mercato di piaceri tanto effimeri quanto volatili; ma della gioia che dura e sostiene tutta un’esistenza, imparando dal vissuto le molte scaltrezze necessarie a resistere alle subdole tentazioni del male. Eppure, sempre gioia e luminosa speranza. È come se il corpo della Chiesa fosse tornato a respirare dopo una lunga stagione di apnea. Storie di fede sincere, profondamente ferite, si sono improvvisamente sentite alleggerite dal giogo della rassegnazione e riconsegnate alla persuasione di essere un bene anche per questa Chiesa – perché solo così esse possono essere efficaci e significative per l’umano comune che è di tutti noi. Francesco ha rimesso in circolo con convinzione un profilo di popolo della fede cattolica. La sfida davanti alla quale egli si trova ora è quella di ideare una forma di governo della Chiesa in grado di corrispondere alla bontà di questa intenzione e in coerenza con i processi di trasformazione politici e culturali in atto.
Non attendiamoci una rivoluzione e, soprattutto, resistiamo alla tentazione di pretendere un riconoscimento ecclesiale a tutela delle scelte che il singolo credente prende in nome della propria coscienza. Anche l’eccessivo entusiasmo con cui il cosiddetto mondo laico ha accolto i primi giorni di pontificato di Francesco dovrebbe rapidamente trovare una sua interna moderazione; perché un’omologazione del cristianesimo alla congiuntura del tempo (in fin dei conti è proprio questo ciò che quel mondo si attende) non è solo avvilente per la fede, ma fa male anche alla città degli uomini. Nella stagione dell’omogeneizzazione consumistica e dell’ottimizzazione tecnica è civilmente auspicabile un cristianesimo che sappia tenere vive le questioni dei fondamentali dell’umano, della sua lieta e compiuta destinazione, del presidio religioso della finitudine dell’uomo e della donna – sulla misura dell’Evangelo di Dio e non su quella delle leggi degli uomini. Tanto abbiamo visto che oramai lo farà chiedendo “per favore” (esponendo però così tutti a una responsabilità ultima che nessuna istituzione, sia essa secolare o religiosa, potrà esercitare in vece nostra), quindi togliamoci i paraocchi ossessivi di un’indebita intromissione della Chiesa – che è solo il ricordo residuale di un’epoca oramai definitivamente passata; e mettiamo in campo, ognuno per parte propria, gli argomenti migliori di cui siamo capaci.
Il banco di prova sarà all’interno della Chiesa stessa. Se nell’arco del suo pontificato Francesco riuscirà a legittimare uno spazio pubblico di discussione, tanto pacata quanto libera e reciprocamente rispettosa, per affrontare i problemi che la concernono e trovare una forma condivisa del suo posizionamento nelle sfide del mondo di oggi, allora è possibile che si generi un’atmosfera ecclesiale in grado di traghettare la Chiesa cattolica verso la delineazione di un nuovo paradigma istituzionale: in presa diretta con l’effettività della fede dei cristiani comuni e prossima alle vicende di un mondo per cui Dio desidera solo la salvezza del suo luminoso compimento.
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