Il 21 maggio appena trascorso la dirigenza della University of California ha preso la decisione di eliminare l’obbligatorietà di allegare alle domande di ammissione ai propri college i risultati degli standardized tests Sat o Act, presentati come forma di “misurazione” oggettiva delle attitudini accademiche degli studenti in un sistema scolastico, quello statunitense, costitutivamente fondato sull’autonomia delle istituzioni e sull’assenza di verifiche finali nazionali del percorso di scuola scondaria.
Uc non è stata l’unica istituzione educativa a prendere questa decisione nelle ultime settimane, visto che circa un centinaio di università e in tutto oltre 1.200 scuole di alta formazione hanno già fatto sapere di rinunciare alle informazioni dei test standard per le loro procedure di ammissione. Il caso della California è però di particolare impatto, perché Uc è un’istituzione di grandi dimensioni, sparsa in dieci campus in tutto lo Stato, e perché ha un ruolo particolare, essendo il punto di riferimento per gli standard qualitativi per tutti gli istituti universitari pubblici della California, l’unità federata più ricca e popolosa di tutti gli Usa e quella capace, nel 1960, di elaborare con il proprio Master Plan for Higher Education il modello organizzativo per l’istruzione post-secondaria in tutto il Paese.
La ragione immediata che ha condotto a queste decisioni è stata l’emergenza epidemica che sta colpendo tutto il mondo (e gli Stati Uniti con particolare durezza): nonostante le assicurazioni delle aziende che amministrano i test, infatti, si ritiene che una loro esecuzione a distanza risulti meno affidabile nei risultati rispetto a quella in presenza. Ma chi segue il dibattito pubblico americano sull’istruzione sa che i fattori di insoddisfazione per gli standardized tests sono più profonde. Proprio l’Università della California, infatti, aveva già nel 2001 preso in considerazione la possibilità di abbandonarli, provocando un profondo ripensamento della loro struttura, e il fatto che nei piani proposti dalla Presidente Janet Napolitano si preveda nel giro di cinque anni un abbandono definitivo del riferimento a Sat e Act, anche se nel frattempo l’università non avrà elaborato sistemi di valutazione di riferimento alternativi, dimostra che la scelta non è, se non in piccola parte, legata alla contingenza.
Per comprendere le ragioni della crescente perplessità, quando non vera e propria ostilità, per uno strumento a prima vista così tecnico, bisogna conoscere meglio la storia ormai secolare degli standardized tests. Somministrato regolarmente a partire dal 1926, il primo test di questo tipo, il Sat (affiancato dal concorrente Act nel 1959) si propose come strumento di valutazione delle possibilità di riuscita universitaria di ragazzi e ragazze secondo parametri omogenei ed estranei dai criteri di selezione allora spiccatamente conservatori in uso nei grandi atenei, ovvero la scuola superiore di provenienza e l’impegno in costose ed esclusive attività extracurricolari. Il suo successo iniziò quando negli anni Trenta l’influente Presidente di Harvard, James Bryant Conant, rese i suoi risultati il criterio fondamentale per l’assegnazione della più ricca opportunità di finanziamento allo studio gestita dall’Ateneo, dando inizio così a una forma di individuazione del merito accademico più aperta e inclusiva di quelle tradizionali.
Quello che era nato come uno strumento di apertura sociale all’istruzione superiore, e che riusciva in fondo a essere tale nel momento in cui restava uno del complesso ventaglio di criteri presi in considerazione dagli admission boards, rischia di diventare il contrario nel momento in cui un numero crescente di college emergenti ne fa uso pressoché esclusivo per reclutare allievi e allieve, in un sistema in cui i principali istituti erogatori dei ghiottissimi programmi di finanziamento agli studi — governo federale compreso — lo rendono il criterio di distribuzione agli studenti e di verifica della qualità degli ambienti di apprendimento pressoché unico, come pare essere avvenuto nell’ultimo quarto di secolo. In un contesto irrigidito in questo modo, Sat e Act mostrano l’enorme debolezza di essere decisamente coachable, ovvero affrontabili con maggior profitto in seguito a una preparazione mirata più alla soddisfazione delle consegne che alla solidità delle basi culturali. Così chi studia in scuole maggiormente attrezzate a preparare al “test della vita” fine a sé stesso, o proviene da ambienti famigliari abbastanza consapevoli da indirizzare figli e figlie ad attività extracurricolari di preparazione all’esame standard, mostra un vantaggio strutturale crescente nella qualità della performance, che va ad unirsi al fatto che i test stessi siano un prodotto umano che riporta pregiudizi culturali quasi automatici, dando per scontate nel contesto di queste abitudini di vita e culturali “di buona famiglia” che favoriscono ancora una volta candidati e candidate provenienti dai gruppi etnico-culturali maggioritari nei ceti medi benestanti. Sat e Act sembrano insomma diventare quasi gli strumenti perfetti per l’autoavveramento della profezia distopica alla base di The Rise of the Meritocracy di Michael Young, in cui l’attenzione esclusiva alla “meritocrazia” nella selezione della classe dirigente porta i genitori più istruiti a curare sempre di più la preparazione della prole in vista delle occasioni di valutazione, e a “congelare” di fatto quella mobilità sociale che a tutta prima si voleva promuovere.
Queste specificazioni, da un lato, aiutano a comprendere su quali basi profonde il movimento di ridimensionamento o annullamento degli standardized tests nelle procedure di selezione per gli studi post-secondari stia incontrando un favore diffuso. Dall’altro, esse aiutano a comprendere anche le ragioni di resistenze altrettanto frequenti nella dirigenza delle università americane, come è emerso proprio nel recentissimo caso della University of California, in cui la rinuncia ai test ha avuto luogo nonostante il parere contrario del Senato accademico, che ritiene un rischio abbandonare il conforto dei risultati dei test senza sostituirli con altre forme di rilevazione delle attitudini culturali. Infatti, sostiene il documento del Senato, non c’è motivo di ritenere che il riscontro esclusivo di altri elementi valutativi, dai risultati scolastici d’istituto alla qualità delle autopresentazioni, evitino distorsioni “classiste”, mentre è effettivamente riscontrato che le performance di Sat e Act si sono mostrate capaci di predire con ottima approssimazione le possibilità di concludere con successo gli studi di ogni studente; rinunciare a questo parametro potrebbe essere deleterio, soprattutto perché proprio le capacità di successo del proprio corpo studentesco sono uno degli elementi su cui gli atenei costruiscono la propria reputazione nell’ambito dello spietato “mercato” universitario statunitense.
Sotteso a questo argomento ve ne è però un altro solitamente espresso in termini meno espliciti, eppure circolante negli ambienti di direzione accademica conservatori, per cui l’inclusività non è un valore assoluto ma il possibile oggetto di un trade off con la qualità istituzionale. Se è vero, come è, che la riuscita accademica e poi professionale dei propri studenti è un parametro decisivo per la considerazione delle università statunitensi, e se appare abbastanza chiaro che questa riuscita dipenda anche dal network di conoscenze e di sostegno sociale che uno studente è in grado di costruirsi per la sua provenienza sociale e famigliare, perché rinunciare ad accogliere giovani di sicuro successo in quanto radicati in un milieu privilegiato per inseguire il miraggio delle pari opportunità? Si tratta di idee tradizionalmente presenti in sottofondo, e pronte ad emergere in momenti di polarizzazione sociale e ideale come questo, anche se il passaggio dell’amministrazione Trump negli investimenti in politica scolastica dall’attenzione al quality assessment alla promozione della school choice in favore degli istituti educativi confessionali ne ha ridotto proprio in un momento così critico il sostegno politico apicale.
In ogni caso, è chiaro che siamo di fronte a un dibattito robusto e impegnativo, destinato a non esaurirsi rapidamente, anche perché ha luogo pochi mesi dopo il cosiddetto scandalo “Varsity Blues”, lo smantellamento di una complessa rete di corruzione per favorire l’accesso ad Atenei prestigiosi di figli e figlie di genitori facoltosi o influenti. Tale inchiesta giudiziaria ha evidenziato falle nei controlli, tanto sulla somministrazione degli standardized tests quanto sulla correttezza delle procedure di ammissione interne agli atenei, e senz’altro la necessità di un radicale ripensamento delle pratiche di selezione nasce anche dalla necessità di acquisire rinnovata credibilità agli occhi dell’opinione pubblica e dei potenziali studenti/clienti da parte di tutto il sistema di istruzione superiore americano.
Di tutto ciò, in Italia si parla poco e spesso malamente. Dovremmo invece interessarcene di più, per almeno due motivi. In primo luogo, il mondo dell’università e dell’istruzione superiore è per definizione globalizzato e aperto agli scambi e alle influenze internazionali; per capirlo non possiamo permetterci di ignorare mutamenti potenzialmente così decisivi proprio negli Usa, il centro della rete di relazioni in cui le università italiane si muovono. In secondo luogo, considerata l’importanza crescente che forme di rilevazione standardizzata della qualità della preparazione assumono nella nostra riflessione sulla scuola, dalle prove Invalsi ai dati che l’Ocse mette a disposizione col programa Pisa, è importante confrontarsi con le prese di posizione che vedono la luce in un contesto in cui il confronto con questo genere di prove, la loro validità e i loro effetti sociali e culturali è già così radicato.
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