I confini sono stati tradizionalmente concepiti come strumenti di protezione dalle ingerenze esterne: sono la soglia oltre la quale allignano le minacce, la barriera che ci immunizza dalla contaminazione con l’estraneo. I riferimenti alla teoria politica e sociale potrebbero qui moltiplicarsi, così come gli esempi tratti dalla storia di provvedimenti di esclusione adottati per proteggere le comunità dalla diffusione di malattie, molto spesso associate alla presenza straniera. Mi interessa però mantenere lo sguardo fermo sul presente.
Molte delle misure che sono state assunte in queste ultime settimane per arginare la diffusione del contagio richiamano questa funzione primordiale dei confini. In molti ne hanno criticato l’efficacia, sottolineandone la natura prevalentemente simbolica ed evidenziando il rischio che esse rappresentino un cedimento alle pulsioni sovraniste in una fase in cui si dovrebbe forse rafforzare la cooperazione internazionale nella lotta contro il Covid-19. Un chiaro esempio di tali pericoli si è avuto qualche giorno addietro, quando i ministri delle Finanze del G20 non sono riusciti a definire il testo di un documento congiunto sulle misure economiche da adottare per scongiurare una crisi globale a causa della pretesa degli Stati Uniti di denominare il Covid-19 come il «virus cinese».
Anche il Consiglio europeo, nella speranza di erigere un argine alla diffusione del contagio, ha raggiunto un accordo sulla restrizione di tutti i viaggi non essenziali verso l’Europa per un periodo (iniziale) di 30 giorni. Una risoluzione che segue alle iniziative unilaterali già adottate da molti Paesi membri che hanno reintrodotto controlli alle frontiere interne, se non assunto provvedimenti di vera e propria restrizione della mobilità. La Commissione è tuttavia ben cosciente della sostanziale impraticabilità di una chiusura ermetica dei confini europei. Nel proporre le misure poi sposate dal Consiglio europeo, ha infatti chiaramente evidenziato il rischio che i controlli minassero la continuità delle attività economiche, spezzassero le catene di approvvigionamento e in ultima analisi distruggessero il mercato interno. Per questo le sue proposte sono andate nel senso di una chiusura «selettiva» dei confini, suggerendo che questi dovessero in ogni caso restare aperti alla circolazione delle merci e del personale impegnato nelle attività di trasporto.
L’intervento delle istituzioni europee voleva anche in qualche misura cercare di coordinare l’azione dei singoli Paesi membri, che avevano in molti casi adottato provvedimenti non del tutto coerenti e, per certi versi, in aperta contraddizione con i principi di proporzionalità e necessità che dovrebbero guidare la sospensione delle regole sulla libera circolazione nello spazio Schengen. La paura della Commissione è che, insieme al mercato interno, si disintegri anche lo spazio di libera circolazione. È singolare tuttavia che la Commissione, pur ribadendo come le restrizioni alla mobilità non siano viste dall’Organizzazione mondiale della sanità quale la strategia migliore per arginare la diffusione del virus, abbia finito per proporre esattamente misure di questo tipo, senza peraltro chiarire del tutto se la funzione difensiva che essa ha assegnato al confine sia diretta a immunizzare lo spazio europeo dai pericoli che giungono dall’esterno o viceversa. Vale la pena di riportare per esteso le parole della Commissione per coglierne tutta l’ambiguità.
«Le frontiere esterne dell'Ue devono fungere da perimetro di sicurezza per tutti gli Stati Schengen. Si tratta di un interesse e di una responsabilità comuni. Nelle attuali circostanze, con il Coronavirus ormai ampiamente diffuso in tutta l'Ue, il regime delle frontiere esterne offre l'opportunità di un’azione concertata tra gli Stati membri per limitare la propagazione globale del virus».
Tuttavia, quello cui stiamo assistendo non è forse una rivalutazione dell'antica funzione «escludente» dei confini, quanto piuttosto un’estrema diffusione degli stessi. Nulla di nuovo, si dirà: già da tempo quella che Etienne Balibar ha definito «ubiquità» dei confini è oggetto di attenta analisi da parte della teoria politica e sociale. In particolare, il tentativo di limitare e controllare i movimenti migratori ha prodotto una moltiplicazione dei luoghi e dei modi in cui si esercita il controllo della mobilità umana, ben oltre la «linea» che comunemente indentifica le frontiere statali. La gestione dell’attuale emergenza sanitaria rappresenta però un salto di paradigma, mettendoci di fronte a uno scenario inedito. I confini si sono moltiplicati a tal punto da assediarci. Essi non si limitano più a cercare di tenere fuori ed escludere l’estraneo, al contrario ci «prendono dentro», ci inglobano in un diagramma di punti di controllo la cui entità più elementare è l’isolato, se non addirittura la nostra abitazione. I confini statali in questo quadrillage disciplinare hanno un ruolo decisamente marginale.
Oltretutto, nel moltiplicarsi parossistico dei punti di controllo che limitano la nostra mobilità, i confini sembrano perdere quella che negli ultimi decenni era stata una delle loro caratteristiche più qualificanti: vale a dire la loro «polisemia». Le misure di distanziamento sociale riguardano tutti, indistintamente. Colpiscono anche coloro che per i privilegi derivanti dal loro passaporto hanno goduto in passato di notevoli credenziali di mobilità. Certo l’impatto delle misure di confino incide in maniera profondamente diversa a seconda del genere, della classe, della condizione di salute degli individui, ma sul piano del diritto alla mobilità esse sembrano aver appiattito almeno per il momento le differenze sociali.
Occorre tuttavia non farsi ingannare dalle apparenze. Nella spasmodica ricerca di una via d’uscita dall’incubo disciplinare in cui molti Paesi sono piombati, la soluzione sembra essere vista nelle tecnologie di sorveglianza informatica attraverso cui tracciare la diffusione del contagio, monitorando i nostri movimenti e i nostri contatti sociali. Soluzione che, si sente ripetere, ha già mostrato la sua efficacia in Corea del Sud e Singapore. Anche questa non è forse una novità. All’indomani di un altro evento di portata epocale, come gli attentati dell’11 settembre 2001, che indusse molti a parlare di ritorno dei confini statali, la soluzione per conciliare l’esigenza di non limitare eccessivamente la mobilità, anche umana, con l’imperativo della sicurezza fu vista nello sviluppo delle tecnologie di sorveglianza applicate al confine. Ora come allora, molti vedono nella sorveglianza uno sviluppo della logica disciplinare, ma in realtà essa viene proposta proprio come via d’uscita dalla presa delle misure di distanziamento e confino cui siamo assoggettati. Le misure di sicurezza sono qui presentate come uno strumento di libertà, o meglio, come uno strumento per recuperare una parte di libertà (di movimento), sacrificandone un’altra (privacy).
Ora, senza voler minimamente sminuire le implicazioni per la tutela della nostra riservatezza di tali strumenti di sorveglianza, mi pare che il rischio che recano con sé sia piuttosto nel fatto che essi finiranno per esacerbare i regimi differenziali di mobilità esistenti, dando luogo a inedite forme di segregazione spaziale basate sul profiling biomedico, vale a dire sulla presunta capacità di identificare e discriminare legalmente chi è a rischio contagio e chi non lo è. Uno scenario di questo tipo ridurrebbe più che amplificare il ruolo dei confini statali, poiché in definitiva porterebbe una geografia dell’esclusione non necessariamente costruita a partire dal nostro passaporto, ma, ad esempio, dalla possibilità che ciascuno di noi avrà di accedere a misure profilattiche o cure adeguate, o alla circostanza di vivere in un’area o di svolgere un lavoro che espone a rischi maggiori o minori.
In conclusione, la via d’uscita dalla paralisi delle attività sociali ed economiche cui stiamo assistendo potrebbe essere cercata non già cercando rifugio nello stato nazione, ma alimentando la sua frammentazione lungo linee di segmentazione sociale e spaziale che tagliano trasversalmente i vecchi confini statali.
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