«Non ho paura di Berlusconi in sé ma di Berlusconi in me», aveva detto quel genio di Giorgio Gaber. In effetti, Renzi è anche questo: un «Berlusconi in noi». Negarlo è scorretto tanto quanto identificare la sua ascesa politica con il declino valoriale della «sinistra», stigmatizzando esclusivamente il linguaggio utilizzato da questo scaltro giovane che rivendica la sua appartenenza proprio a quell'area politica.
Purtroppo, nelle nebbie degli avversi giudizi sulla figura di Matteo Renzi si nascondono i limiti del dibattito interno al Partito democratico: i fini, i progetti, la partecipazione sono subordinati alla scelta dei mezzi, dei volti, dei leaders; la sfida è polarizzata attraverso l'utilizzo delle vuote categorie di «vecchio» e «nuovo»; un'onesta e necessaria autocritica strutturale di lungo periodo viene volentieri evitata, quando una seria analisi dei successi e degli insuccessi dell'idea ulivista dalla sua nascita ad oggi sarebbe l'unico modo per creare una sinistra di governo – obiettivo a monte rispetto al seppur necessario restyling mediatico di una buona idea della Seconda Repubblica.
Per quanto riguarda l’antica disputa mezzi/fini, va detto che la decostruzione del linguaggio politico cosiddetto tradizionale è una realtà ben più ampia del fenomeno Renzi, di cui troppo spesso ci si limita a criticare le scelte comunicative. Fece giustamente scalpore la partecipazione di «Matteo» ad Amici di Maria de Filippi: per me e per buona parte dei miei coetanei quel programma rappresenta il telecinquismo in cui abbiamo rischiato di affogare - un linguaggio in cui anche Renzi è cresciuto, e nel quale sguazza volentieri. Tuttavia, al termine di questo ventennio televisivo, si può tranquillamente sostenere che i volti del centrosinistra avrebbero dovuto porsi ben prima il problema di bucare lo schermo dell'altra metà del Paese: in questo senso, parlare «del Brunelleschi» al popolo pomeridiano di Mediaset potrebbe anche essere un tentativo encomiabile. In generale, più si pensa all'ultima campagna elettorale di Bersani più ci si convince della bontà del tentativo a tutto campo di Renzi. Ma quand’anche egli rappresenti una buona soluzione ai limiti comunicativi del centrosinistra, un’analisi non semplicistica dell’ultima tremenda sconfitta elettorale non è ancora stata condotta all'interno del partito: la sonorità della debacle e l’esistenza di Renzi tra le fila democratiche sono bastate a convincere parte del vecchio establishment circa l’importanza di un leader padrone dei nuovi mezzi. È questo un antidoto sufficiente al grillismo dilagante? O il problema risiede, soprattutto, nell'indeterminatezza degli obiettivi politici di un partito più diviso che democratico?
Secondo: la sterilità della competizione interna al Pd deriva dal fatto che questa viene ridotta al mero (e opportunistico) schieramento pro o contro «la novità», una categoria politicamente insulsa che il sindaco di Firenze è ben lieto d’incarnare (per quanto tempo ancora?). In realtà, egli non è affatto nuovo. Utilizzando i cinque parametri proposti da Salvati: non è nuovo il suo orizzonte ideologico-culturale, sospeso tra il laburismo blairiano e il liberalismo obamiano; è banale la narrazione che propone per l'Italia del futuro, poiché la sua entusiastica politica della bellezza non è che una reinterpretazione scoutistica della politica dell’amore berlusconiana e della politica della comunità di Grillo (un giorno le parole ad accezione positiva universale finiranno); Renzi non è nuovo nemmeno per il suo partito, perché vi è nato e cresciuto - il suo essere «ragazzo del vivaio» rappresenta forse il suo punto più forte – e infine non è nuovo come volto pubblico, perché da quasi dieci anni amministra una delle più importanti città italiane e perché ha partecipato da protagonista alle ultime primarie nazionali - perdendole in maniera inequivocabile per mano di una base militante più «vecchia» ancora della dirigenza. In altre parole, senza nulla togliere al talento e all'età anagrafica, dal punto di vista dell'individuo la novità politica è oggettivamente da ridimensionare.
Terzo: al di là dell’elezione del Segretario – che, tenendo ferme le primarie, non è necessariamente il futuro candidato premier (e poi, per quali elezioni?) – per rappresentare un vero momento di rottura il Congresso del Pd dovrebbe fare luce senza indugi sulle ragioni profonde del suo imbarazzante ritardo storico. Lo dicano, che sono rimasti vittime del limite culturale della sinistra novecentesca: lo dicano, che il compromesso storico 2.0 - se i voti non bastano c'è Monti – è stato un errore. Lo ammetta, Bersani, che da buon amministratore emiliano non si era mai posto il problema di vincere una campagna elettorale – per quale motivo avrebbe dovuto riuscirci nel2013, in un mondo radicalmente cambiato? Lo dica che avrebbe dovuto candidarsi alle primarie del 2007, quando tre liste dedicate a Veltroni diffusero la percezione delle primarie istituto farsa. Solo se verrà detta la verità, Renzi smetterà di essere nuovo per antitesi e potremo valutarlo nel merito; solo se verrà detta la verità, il futuro leader potrà contare su una solida base politica e valoriale per provare, magari con più faccia tosta, a coagulare un consenso radicalmente nuovo e trasversale. Se viceversa non si analizzeranno gli errori, se l’unico partito rimasto sulla scena politica italiana non vorrà essere, come auspica giustamente Civati, uno spazio aperto alle invasioni di campo di militanti spontanei non tesserati, uno strumento di regole condivise e di partecipazione al servizio della società, uno squarcio democratico sulla stessa, allora questo scomparirà: non già per mancanza di comunicazione o di leader, ma perché avrà fallito la sua missione nell'Italia contemporanea - questa sì, a mio giudizio, una missione «di sinistra». In poche parole, senza la definizione di un condiviso sistema di senso e di chiari obbiettivi politici conseguenti, Renzi non sarà che l’ennesimo ritardatario della "sinistra italiana": un luogo politico mai al passo coi tempi, anche quando, in nome della comunicazione, si mette goffamente le virgolette.
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