Possiamo dire ancora una volta, mi pare, che gli italiani danno il meglio di sé solo quando sono con le spalle al muro, mentre non appaiono in grado di agire in modo da anticipare possibili rischi futuri. Quanto è accaduto dal 4 maggio 2020 ad oggi appare come una ulteriore conferma di questa tendenza.
Dopo il lockdown della primavera sembrava che avessimo imparato la lezione e che i nostri governanti avessero compreso che occorresse innanzitutto prevenire un nuovo inasprimento epidemico. Pareva chiaro a tutti che fosse indispensabile e urgente rafforzare il comparto ospedaliero e il servizio di medicina territoriale (largamente penalizzati dai continui tagli alla sanità degli ultimi 30 anni), approntare iniziative di screening a largo spettro, prendere tutte le precauzioni e attrezzare i luoghi di lavoro, i mezzi pubblici e le scuole per poter garantire servizi sicuri. Fare una massiccia campagna mediatica e informativa sull'uso dei dispositivi di prevenzione e, soprattutto, attivare una forte e persuasiva azione di controllo e monitoraggio del rispetto delle regole. Tutto questo è stato dichiarato, ma non è stato messo in atto, in ossequio a una visione retorica della prevenzione secondo la quale è sufficiente dichiarare una azione perché essa venga percepita come reale e concreta. Questo tipo di atteggiamento da parte dell’élite politica ha un potere diseducativo dirompente sull'opinione pubblica: se chi ci governa dichiara una cosa e poi non la fa, e contraddice col suo comportamento le proprie intenzioni, perché io, singolo cittadino, non mi dovrei implicitamente sentire autorizzato a fare altrettanto?
Una simile cultura dell'emergenza opposta a quella della prevenzione si può osservare anche in controluce nelle modalità attraverso cui si è scelto di gestire la fase 1 dell'emergenza sanitaria, nella quale il Governo italiano ha deciso di interpretare il proprio potere come una sorta di “dominus”, nel senso più di padrone che di maestro, facendo leva sull'obbedienza dei cittadini piuttosto che sul loro senso di responsabilità. La contrapposizione paradigmatica tra una visione del potere come “dominio” e una visione del potere come “governo” rappresenta una delle dicotomie tipiche del nostro tempo in cui le posizioni populiste e sovraniste privilegiano la prima interpretazione a scapito della seconda, ma questa lettura è ormai condizionante le scelte anche di governi di altri orientamenti. Nella cultura dell'obbedienza non c'è spazio per la responsabilizzazione e il senso di protagonismo del cittadino che si sente impaurito e inerme di fronte a circostanze per lui inedite e drammatiche, affidandosi quindi completamente e passivamente a chi lo governa. Il rischio di una posizione del genere è che se il potente di turno non si dimostra all'altezza del compito e non risolve la situazione rassicurando i cittadini/sudditi, allora questi ultimi perdono fiducia e si ribellano.
Una cultura della prevenzione, viceversa, richiede una responsabilizzazione del singolo e porta con sé l'idea che ogni soggetto possa contribuire a cambiare le sorti della comunità intera e che la comunità stessa è costituita non da sudditi ma da soggetti, che vedono nel bene comune un interesse proprio e della collettività insieme. Per questo motivo, a lungo andare, la logica dell'emergenza, la cultura dell'obbedienza e del potere inteso come “dominio” rappresentano disfunzionalità dei sistemi di governo che rischiano di aprire la strada a derive antidemocratiche.
Viene in mente a tal proposito la favola africana dell’incendio e del colibrì, nella quale si narra del fuoco che divampa nella savana e di come tutti gli animali, terrorizzati e pietrificati dalla potenza della distruttiva della natura, guardano con sgomento, senza poter fare nulla, il fuoco che si divora la loro casa. Anche il leone, il re degli animali, è sbigottito e inerme. Nel frattempo un piccolo colibrì vola instancabilmente portando da un vicino laghetto col suo becco poche gocce d’acqua che lascia cadere sull’incendio. Il leone, accortosi del colibrì, lo osserva e sprezzante lo apostrofa: “cosa credi di fare, tu piccolo colibrì!”. A quel punto il colibrì, senza smettere di volare portando acqua, risponde: “faccio la mia parte…”.
Oggi, novembre 2020, ci troviamo di fronte a un governo che ha perso credibilità e autorevolezza agli occhi dei cittadini e le cui scelte drastiche, prese sotto la pressione della seconda ondata di contagi, vengono percepite da molti, nel peggiore dei casi, come un abuso di potere o, in una prospettiva più indulgente, come palliativi di dubbia efficacia.
D'altra parte occorre dire che anche il mondo scientifico dell'epidemiologia e dell’infettivologia, salito alla ribalta mediatica in questi mesi, non ha dato dimostrazione di sapere interpretare al meglio il proprio ruolo in senso civico e sociale. Se infatti è vero che la ricerca e l'evoluzione scientifica si nutrono di un dibattito anche aspro tra posizioni contrapposte e di confronto tra evidenze sperimentali a volte anche contraddittorie tra loro, è altrettanto vero che quando un medico, uno scienziato si trovano a dover rapportarsi con l'opinione pubblica, o il proprio paziente, deve sapere che ciò che dirà avrà un peso determinante sulla psicologia dell’interlocutore. Non si può quindi pensare di dare informazioni senza avere meditato sugli effetti che tali notizie hanno su una audience già sotto stress, in ansia e in attesa che dalla voce dell'esperto arrivino verità rassicuranti. In questo frangente abbiamo invece assistito a una deresponsabilizzazione comunicativa e sociale di diversi scienziati esperti in materia che si sono avvicendati sulla ribalta mediatica. Molti di loro sono sembrati animati da narcisismo individuale, piuttosto che dall’idea di rappresentare una comunità autorevole e con una deontologia condivisa che dovrebbe darsi come obiettivo prioritario la difesa e la cura di tutta la collettività e non il proprio tornaconto personale.
Presto gli operatori della comunicazione hanno enfatizzato le divergenze tra gli scienziati creando una polarizzazione tra posizioni diverse, se non addirittura in certi casi opposte. Una logica dicotomica, questa, tipica di una società incapace di coscienza collettiva, sempre alla ricerca di un alter ego e di un nemico cui addossare la colpa per sottrarsi alle proprie responsabilità e prerogative, che rinuncia alla volontà di comprendere la complessità e l’interdipendenza dei processi umani per rifugiarsi in derive irrazionali semplificatorie e consolanti.
Abbiamo avuto un esempio di che cosa significhi uscire da una democrazia cognitiva nella quale chi ha più potere ha anche (o dovrebbe avere) maggior dovere di restare ancorato ai principi della razionalità nelle scelte. Uno degli effetti collaterali di questa pandemia è stata senza dubbio la dimostrazione che le nostre democrazie devono essere rigenerate attraverso una più efficace è intelligente relazione tra mondo scientifico, mondo dell'informazione e governo delle comunità umane, a livello locale e globale. La prevenzione, non solo delle epidemie, ma anche di altre calamità come la crisi climatica o la lotta contro le discriminazioni e la difesa dei diritti umani, richiede necessariamente che vengano poste alcune priorità irrinunciabili dalle quali in nessun contesto dovrebbe essere possibile derogare. E che ognuno, come il piccolo colibrì, faccia la propria parte per il bene comune.
Di fronte alla paura, la risposta adulta non è la negazione o la vana ricerca di un colpevole, ma la volontà di comprensione delle cause e lo sviluppo di strategie per il superamento della crisi.
Ricorrendo alle semplificazioni e appellandosi all’obbedienza non si promuovono coesione sociale e solidarietà tra chi è chiamato a decidere e i cittadini, ma si aumentano la distanza e il sospetto. Se non recupereremo la consapevolezza di avere un destino comune come collettività, non sarà possibile fare appello alla responsabilità individuale e continueremo ad agire come leoni superbi e non come colibrì responsabili.
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