Fra i tanti aspetti che vengono sottoposti al vaglio delle polemiche nella riforma costituzionale del cosiddetto premierato, la posizione del presidente della Repubblica occupa una considerazione non all’altezza del delicato problema che investe. C’è infatti una scarsa volontà di considerare la problematica in sé, sganciandola da virtù e debolezze del Quirinale nel confronto con la trasformazione del sistema politico avvenuta nell’ultimo trentennio.
Si intravvede anche troppo in trasparenza il ricordo negli uni di interventi del Colle che contrastarono le velleità egemoniche di nuovi leader e la speranza negli altri del perpetuarsi di una funzione di saggia supplenza per evitare quegli avventurismi pericolosi che essi non erano in grado di impedire. Le leggi, tanto più quelle costituzionali, andrebbero però fatte con il famoso “velo di ignoranza” (per quanto sempre relativo trattandosi di materie politiche e non di teoremi giuridici).
Da storico dei sistemi politici mi permetto di indicare qualche spunto di riflessione. Partiamo dal rammentare che la questione dei poteri del capo dello Stato risale molto indietro nel dibattito costituzionale europeo. Quando nella seconda metà dell’Ottocento si discettava sul “modello inglese” che pareva bello stabile nonostante si basasse su confronti niente affatto delicati fra i partiti politici, si attribuì quella stabilità al ruolo del sovrano, che si riteneva arbitrasse quelle lotte avendo la facoltà di sciogliere il Parlamento e richiamare il popolo a esprimere il proprio parere.
Questa presunzione era molto forte nella Francia dell’epoca, che aveva un sistema di partiti molto plurale, come si direbbe oggi, e che di conseguenza non riusciva a produrre esecutivi efficienti e duraturi. Così il saggista e politico Prevost-Paradol, nel suo La France Nouvelle (1868), invitò a una riforma costituzionale che desse al presidente della Repubblica quel potere di scioglimento del Parlamento che spettava al sovrano britannico, in quanto così si poteva avere un arbitro imparziale. Gli rispose l’autore del più famoso e acclamato studio sulla Costituzione britannica (The English Constitution, 1869), Walter Bagheot, che ricordò come in realtà in quel contesto il potere di scioglimento non spettasse al sovrano, ma al primo ministro, e che soprattutto stabilire che il capo dello Stato fosse necessariamente un potere imparziale “era veramente pretendere troppo dalla natura umana”.
Di acqua sotto i ponti ne è passata da allora, ma per tanti aspetti siamo ancora lì: il costituzionalismo democratico si interroga se non sia necessario disporre di un potere equilibratore e arbitrale a fronte di un sistema rappresentativo che giustamente si fonda sulla competizione tra forze politiche diverse (i partiti, ma in verità anche qualcos’altro). Il dibattito è stato presente anche in Costituente nel 1947, ma la formula magica non si è trovata. Secondo noi la ragione è abbastanza semplice: fra i contendenti l’arbitro va bene solo a quelli che ritengono di esserne tutelati, se non addirittura favoriti, ma poi tutti temono che l’incertezza di quella tutela, gli spazi di discrezionalità che inevitabilmente comporta, suggerisca di lasciar perdere, formalizzando i requisiti dell’arbitrato ma facendo in modo che possa essere esercitato il meno possibile.
Questa è la nostra storia repubblicana, dove alla risorsa di un capo dello Stato che possa mettersi al di sopra della mischia e richiamare il Paese a non farsi travolgere da essa si è ricorsi volontariamente poche volte
Questa è la nostra storia repubblicana, dove alla risorsa di un capo dello Stato che possa mettersi al di sopra della mischia e richiamare il Paese a non farsi travolgere da essa si è ricorsi volontariamente poche volte, salvo accettare l’inevitabile quando in presenza di un vuoto di capacità politica dei partiti e del parlamento scattava il meccanismo della supplenza obbligata.
Ora, nel momento in cui si propone di provare a risolvere la questione della difficoltà di un sistema ostinatamente pluripartitico e frammentato (specchio di un Paese che ancora fatica a trovare una profonda unificazione socio-culturale) introducendo la designazione forzata di un “premier” con maggioranza teoricamente garantita, più che mai si ripresenta la necessità di adeguare la figura del capo dello Stato ai tre ruoli fondamentali che deve ricoprire: garante e rappresentante dell’unità nazionale, custode del buon uso del sistema rappresentativo-costituzionale, equilibratore delle articolazioni del potere. Si può naturalmente riassumere tutto nella funzione di custode della Costituzione, ma articolare un poco non è male.
La rappresentazione dell’unità nazionale è di grande importanza perché una nazione non vive senza l’idem sentire de re publica. Certo, questo si costruisce a livello istituzionale con il sistema educativo, con il concorso di una cultura che produce una vera “opinione pubblica”, con una Pubblica amministrazione che difende e diffonde il sentimento di cittadinanza: ma sappiamo bene quanto siano importanti i simboli per concorrere a tutto questo. Più di una volta i presidenti della Repubblica si sono impegnati in quest’opera con l’uso attento del potere di esternazione: dai discorsi alle presenze pubbliche. C’è però un aspetto che si tende a sottovalutare e talora a negare: la capacità di nominare in ruoli molto delicati personalità che il presidente ritiene particolarmente significative per sottolineare l’aspetto dell’unità del Paese al di sopra delle competizioni fra le forze politiche. Un caso emblematico sono i cinque giudici costituzionali di sua nomina (per esempio si può ricordare in questo caso la scelta di alcune presenze femminili). Altrettanto importante dovrebbe essere la nomina dei senatori a vita, la cui proposta abolizione mostra una carenza di cultura nazionale. Si può discutere se sempre questa facoltà sia stata usata nel migliore dei modi, ma salvare il simbolo che c’è una chiamata alla corresponsabilità politica per chi ha mostrato come si può dare in modo alto un contributo al bene comune è molto significativo.
Questo ruolo, come gli altri che ci accingiamo a segnalare, richiede però una revisione del metodo di elezione del presidente della Repubblica. Ma vediamo prima gli altri due temi citati.
Può sembrare vago, forse anche equivoco, il compito di custode del buon uso del sistema rappresentativo-costituzionale. Con questo intendiamo riferirci alla gestione delle crisi di governo. È evidente che un sistema a base rappresentativa elettorale non può essere considerato esente da tensioni interne ai conflitti fra gli eletti che si generano nelle assemblee parlamentari. La soluzione drastica per impedire che ciò blocchi il corretto funzionamento del sistema è ricercata nel disegno del premierato così come è proposto in un marchingegno che tendenzialmente obblighi in questi casi allo scioglimento della legislatura per ridare la parola agli elettori, o, se i parlamentari vogliono evitare i rischi che affronterebbero con questa eventualità, a ripiegare su una composizione forzosa della crisi.
Come è facile immaginare sono due soluzioni che in astratto funzionano, mentre in concreto possono porre notevoli problemi. Per esempio lo scioglimento della legislatura comporta una fase di passaggio non breve in cui la macchina pubblica resta in balìa dell’incertezza sui futuri equilibri, mentre nel Paese si può scatenare una competizione che incrementa populismi e demagogie che non sono mai augurabili per una democrazia stabilizzata. Le soluzioni forzose che obbligano alla ricostruzione di coalizioni che evidentemente non hanno funzionato produrranno il perdurare di lotte intestine fra sconfitti del vecchio governo e nuovi soggetti che hanno tratto profitto dalla sua crisi. Sono in genere solo le premesse per finire in un rinnovato scontro politico generalizzato (anche le opposizioni non staranno certo a guardare) cioè per produrre un contesto di tensioni e instabilità.
Il lasciare all’inquilino del Colle gli strumenti per evitare il degenerare delle crisi politiche riconducendole a una normale fisiologia del funzionamento del sistema rappresentativo è essenziale non perché possa esercitare un qualsiasi dirigismo sulla classe politica, ma perché possa prevenire la corrosione del sistema costituzionale, generando sfiducia dei cittadini nei confronti di esso.
Nel grande e complesso sistema statuale in cui ci troviamo a vivere i poteri sono molti di più della triade tradizionale (esecutivo, parlamentare, giudiziario): dunque non è affatto secondario il ruolo di equilibratore delle articolazioni del potere
Non ci sembra affatto secondario il ruolo di equilibratore delle articolazioni del potere. Nel grande e complesso sistema statuale in cui ci troviamo a vivere i poteri sono molti di più della triade tradizionale (esecutivo, parlamentare, giudiziario), e peraltro anche tenere un equilibrio fra questi si dimostra tutt’altro che semplice (basti pensare alla questione della magistratura). Ma se pensiamo ai molti altri centri che ci sono, l’alta burocrazia, i sistemi di rappresentanza del mondo economico e del lavoro, i poteri locali, l’universo della comunicazione ecc. è facile capire che a tutti questi bisogna dare un sistema di riferimento unitario che eviti il proliferare dei corporativismi egoistici. Nell’età d’oro dei grandi partiti essi erano il punto di riferimento di tutti quei poteri, ed essi, attraverso la loro attività nel governo, nel Parlamento e nel Paese, provavano a portare a sintesi le tensioni, ma anche le positività che quei poteri esprimevano.
Oggi quel tipo di partiti non esiste più, per varie ragioni su cui non possiamo intrattenerci. Il presidente della Repubblica è già di fatto divenuto, grazie anche allo sviluppo dei suoi uffici, il referente di queste articolazioni del nostro sistema politico e sociale. In qualche caso si è anche provato a formalizzare questo ruolo, pur con scarsa disponibilità delle corporazioni a riconoscerlo a fondo: si pensi alla presidenza del Csm affidata al capo dello Stato. Sarebbe più che opportuno normare con creatività e coraggio il quadro entro cui l’inquilino del Quirinale viene messo in grado di esercitare a fondo quel ruolo di equilibratore che in fasi di grande transizione storica come quella che stiamo vivendo è quanto mai decisivo per mantenere in asse il nostro sistema.
Tutto ciò ci porta alla conclusione che è necessario rinforzare il sistema di legittimazione del presidente della Repubblica a partire ovviamente dalle modalità della sua elezione. Non è solo questione di evitare che di fronte a un premier designato dalle urne popolari egli appaia meno autorevole perché è designato in fondo dalla componente parlamentare del momento della sua elezione (che col sistema odierno potrebbe essere anche una sola maggioranza di parte). Si tratta di dargli la forza rappresentativa “nazionale” rispetto a tutti gli interlocutori con cui deve interagire, siano essi interlocutori politici interni e internazionali, sociali, burocratici.
Quanto più si riuscisse a far esercitare il compito elettorale a una platea allargata rispetto a quella odierna, che fondamentalmente è espressione quasi solo dei parlamentari e di conseguenza dei partiti, tanto più avremmo un presidente della Repubblica con un peso molto forte, che gli consentirebbe di esercitare quei ruoli che abbiamo richiamati.
Immaginare in un articolo come potrebbe essere composto il nuovo collegio elettorale sarebbe ovviamente velleitario. Una riforma di questo genere ha una delicatezza tale che presuppone un lavoro di costruzione del consenso lungo il quale si testano, si trovano e si scartano soluzioni. Idealmente più si allarga la platea, senza arrivare al sistema dell’elezione popolare diretta che non è adatto a un Paese come l’Italia, dove non si è disposti ad accettare un risultato elettorale se non è quello gradito, più ci si avvicina all’obiettivo che abbiamo delineato. Già allargare la partecipazione a ceti politici esterni al Parlamento (sindaci, deputati regionali e/o locali, qualche esponente dei sistemi rappresentativi del mondo sociale) sarebbe un gran passo avanti: naturalmente si tratterebbe di rappresentanze circoscritte dei vari ambienti citati perché, se si vuole che la designazione del presidente della Repubblica derivi da un corpo che ne discuta e si confronti su candidature e profili, non si possono immaginare collegi oceanici.
Qualche volta si potrebbe anche provare a essere creativi nel fare le riforme. I nostri Costituenti in una certa percentuale lo furono, non si vede ragione perché non si possa provare a ricreare quel momento felice.
Riproduzione riservata