Per gli americani l’egemonia si condensa in una formula: leadership in partnership. A loro modo, lo facevano anche gli antichi romani: guidare coinvolgendo e, quindi, dando a tutti la percezione di condividere un’idea di civiltà, di bene comune. È l’universalismo. Ma ai tedeschi viene naturale prima evidenziare le differenze e poi, eventualmente, unire. Ritornano le categorie che dividono i popoli e la priorità, da politico-finanziaria, diventa morale. Fa così, di nuovo, capolino l’etica escludente, mentre l’emergenza del debito costringe a misurarsi con le differenze e il richiamo alla propria cultura antropologica è chiaro: chi è superiore sta sopra, gli altri stiano sotto. Non c’è assoluzione per chi pecca, il rapporto è con il proprio destino e nessuno può intercedere. La parola d’ordine è "pagare ed espiare". Una categoria che con l’economia non ha nulla da spartire.
Il Pil greco è del 2,8% rispetto all’Eurozona. Bastava mettere sul piatto 30 miliardi per far capire ai mercati che l’Europa faceva sul serio. Ma il problema assume un’altra dimensione: l’imputato è il carattere greco. Le sue abitudini levantine, il suo clientelismo, le sue tradizioni che non prevedono lo Stato come entità primaria ma la Chiesa ortodossa. E quindi, siccome la partnership è venuta meno, non resta che la leadership che, tradotto in tedesco, vuol dire una cosa sola: austerità sino a scoppiare. Ed è ciò che sta accadendo. Perché la nazione ellenica è costretta alla miseria senza aver davanti alcuna speranza di riscatto, a parte dover ammettere di avere sbagliato. Come dire, sì sono greco e ne porto la colpa.
Thilo Sarrazin ha avuto nell’agosto 2010 un successo strepitoso con il suo libro Deutschland schafft sich ab (La Germania si abolisce) dove si riportano valutazioni biologistiche dell’intelligenza. I popoli hanno geni ereditari e faticano a cambiare, questo il messaggio. Ed è proprio questa diffidenza che blocca i tedeschi nell’approccio con la crisi dell’euro. Perché la moneta unica costringe gli Stati a mettere in comune quasi tutto, ma quando si scopre che il partner appartiene a una categoria inferiore scatta il terrore del contagio e bisogna erigere muri di protezione. Quelli che il fiscal compact prevede con misure sanzionatorie e draconiane. Interventi in grado di rendere sostenibile il rigore sono visti con sospetto perché il paese in crisi è un diverso. Il concetto è riassunto dallo storico Michael Stürmer: «Paesi come la Grecia che hanno conti falsi, statistiche sbagliate, sono una bugia o un’incompetenza organizzata, a questi paesi non ci si può legare con un patto di fiducia» ("Il Foglio", 4/5/2010). Ed è qui la cesura. Non lo dicono, ma nel cuore dei tedeschi l’euro è una moneta dei paesi forti (il che vuol dire per gli altri un processo di selezione). A Berlino di crescita non vogliono sentire parlare, se crescita significa dover garantire anche per chi non ha i conti in ordine. Ciò che finora ha impedito la deflagrazione sono i costi che si accollerebbero, in caso di collasso del Sud Europa, sulle spalle del contribuente tedesco e dei quali in Germania si fatica a parlare.
La banca svizzera Ubs, con una ricerca del settembre 2011 condotta da Stephane Deo, ha certificato che la fine dell’euro potrebbe significare un costo dieci volte superiore a quello attribuito ai salvataggi. Senza contare che un euro a dimensione nordica verrebbe rivalutato fino al punto in cui si avrebbero sensibili riduzioni dell’export tedesco. Cosa che la Svizzera ha già esperimentato a proprie spese. Una lezione per Berlino che ha il record nelle esportazioni grazie a un euro mitigato dalle economie più deboli: la Germania ha bisogno dei propri partner. Da qui il tatticismo adottato dal cancelliere tedesco, che si riassume in una dichiarazione mai smentita del ministro Thomas de Maizière: «Con l’Europa bisogna comportarsi come con i bambini: se si cede subito si finisce con lo spendere molto di più di quanto non succeda se si aspetta un po’ prima di farlo» ("Il Sole - 24 Ore", 21/5/2010). È l’insicurezza cosmica che guida i tedeschi nelle cose del mondo. È quella che li ha indotti a riformare la loro economia quando gli altri, America in testa, folleggiavano. Un segno di avvedutezza che li legittima nella guida d’Europa. Ma con la paura, con la sfiducia nelle capacità dell’uomo di correggere i propri errori non si governa un’unione di popoli tra loro diversi. Alla Germania manca lo slancio ecumenico, quello che parte dal presupposto dell’eguaglianza e non della differenza. In due guerre mondiali i tedeschi hanno ambito al primato. Un’Europa finalmente in pace offre l’egemonia su un piatto d’argento, ma la Germania si ritrae, la spaventa l’idea di condividere i propri destini con i diversi. La politica tedesca si sente garantita solo dalle gerarchie. Ammonisce Carl Zuckmayer in Il capitano di Köpenick: «Conosco un detto prussiano: Suum cuique, che in tedesco significa: “ognuno per sé ma la parte più grossa a me”».
Riproduzione riservata