La vittoria referendaria dello scorso giugno è stata analizzata alternando spiegazioni congiunturali (la seconda spallata al governo Berlusconi dopo il tonfo delle amministrative), antropologiche (il rigetto da parte della maggioranza della popolazione del modello politico e culturale berlusconiano o di quello neoliberale) e “tecnologico-riduzionistiche” (la vittoria del web 2.0 contro l’establishment politico e mediatico, in analogia con le piazze degli indignados spagnoli o della Primavera araba).
Ma al di là dell’exploit referendario c’è di più, soprattutto nel caso dei due quesiti sull’acqua. Il movimento sociale che li ha proposti è una realtà carsica e plurale, emersa agli onori delle cronache in occasione della campagna referendaria, ma nei fatti attiva da più di dieci anni. Le sue origini vanno rintracciate nel movimento no global, di cui resta, a livello sia italiano sia internazionale, uno dei pochi rivoli ancora attivi e con qualche successo concreto alle spalle. Grazie anche alla capacità di costruire e animare una variegata coalizione composta da comitati civici, amministratori locali, ong, sindacati, movimenti di consumatori, associazioni ambientaliste, parrocchie, favorita dalla valenza simbolica e strategica del tema.
Per cogliere appieno la portata di questo movimento, ricostruendone strategie, discorso e pratiche di mobilitazione, una suggestiva ipotesi esplorativa è quella orientata dall’idea di “economia morale”: formula coniata da Edward Thompson per analizzare le proteste della folla in merito alla carestia e al mercato del grano nell’Inghilterra del Settecento, con l’obiettivo di evitare spiegazioni utilitaristiche dell’azione collettiva e di restituire ciò che essa esprime in termini di concezioni popolari di legittimità e giustizia in merito al benessere collettivo, alle transazioni economiche e al ruolo dello Stato nel governo di queste.
L’idea di economia morale invita innanzitutto a concentrare l’analisi sulla relazione tra governanti e governati nel contesto di un cambio di paradigma nel modello politico economico di riferimento. La protesta contro la privatizzazione dell’acqua assume così il valore paradigmatico di battaglia contro la privatizzazione della politica, intesa non tanto come ritirata dello Stato di fronte al mercato, quanto piuttosto come l’esercizio del potere secondo forme di governo indiretto e attraverso il ricorso a intermediari e dispositivi di natura privata, per un numero crescente di funzioni in precedenza attribuite allo Stato. E si intreccia in maniera contraddittoria con gli interessi degli amministratori locali: da un lato i sostenitori della “Municipio S.p.A.”, lanciati nella partita delle multiutilities attraverso alleanze e fusioni tra le ex municipializzate delle principali città italiane; dall’altro quelli che temono di essere scippati da multinazionali e fondi di investimento del controllo di una risorsa strategica per la gestione del territorio.
Questo approccio permette anche di sottolineare il carattere simbolico e morale di una mobilitazione in reazione a norme e pratiche percepite come l’attacco a un sistema di valori preesistente, ipotetico o reale che sia. Carattere simbolico che si traduce nel riferimento all’acqua come diritto umano e bene comune su cui non è considerato lecito fare profitti o lucrare, a conferma che i rapporti economici, di scambio e di produzione non possono essere separati dalle concezioni morali che ne derivano e che contribuiscono a darvi senso.
La lezione di Thompson suggerisce infine di analizzare la dimensione comunitaria della protesta: le narrative e pratiche di riscoperta del bene comune e del territorio – sorgenti, fiumi e fontanelle – o della loro reinvenzione, dal momento che i confini della comunità, quando si ha a che fare con un ciclo complesso come quello dell’acqua, sono particolarmente controversi in termini sia spaziali sia temporali.
L’insieme degli elementi qui accennati delinea i contorni di un’economia morale dell’acqua pubblica che sarebbe riduttivo ricondurre a mero risultato di rigidità ideologiche, posizioni antistoriche o volontà mistificatrici. Al contrario, essa pone questioni da cui l’auspicata riforma organica del settore non potrà prescindere, se si vorrà assicurare una gestione ispirata ai criteri della legittimità democratica che coniughi l’efficienza da tutti invocata con la richiesta di partecipazione e controllo popolare certificata dal referendum.
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