Con la svolta degli anni Novanta, l’implosione del sistema dei partiti di massa aveva trasformato [la giornata del 25 aprile] in un’arena delle pratiche di delegittimazione reciproca tra le due parti a confronto, rinviando in fondo a due Italie difficilmente componibili: da una parte, quella che si riconosceva nel berlusconismo, erede delle pulsioni di revisione costituzionale del craxismo e delle «picconate» cossighiane, sdoganatrice della destra radicale e neofascista, espressione di un’idea di politica disposta a tradurre in scambio opportunistico e spregiudicato tornaconto personale la dialettica degli interessi e le pratiche di gestione del potere di governo; dall’altra, quella del centro-sinistra, aggregazione difficilmente componibile sul piano politico-culturale di ciò che sopravviveva – geneticamente modificato in ambiente maggioritario – del solidarismo cattolico e di quello comunista, del patriottismo costituzionale erede dell’antifascismo, del pensiero critico delle diverse componenti della sinistra «a sinistra» del Pci.

Queste due Italie si sarebbero confrontate per oltre un decennio, dal 1994 al 2006, e inerzialmente per un poco ancora, trovando proprio nel 25 aprile un habitat favorevole allo scontro finalizzato alla delegittimazione dell’avversario: da una parte, il berlusconismo assimilava il senso comune di destra – che si ostinava a vedere in quella data una festa volutamente divisiva, celebrante la superbia dei vincitori sui vinti, dei «comunisti» (pur in assenza di comunismo) sui democratici «liberali» – amplificandolo e restituendolo in forma tale da favorire la radicalizzazione anche dei settori moderati e benpensanti del centro-destra, al contrario di quanto aveva invece garantito in precedenza la Dc; dall’altra, il centro-sinistra evocava l’antifascismo storico come richiamo fondativo e identitario per contrastare la nuova destra e difendere la Costituzione, come deposito di valori evergreen per affrontare i problemi del presente, consentendo la difficile convivenza e il connubio politico-culturale in forma di difesa delle garanzie democratico-costituzionali tra componenti della sinistra storica, del solidarismo democratico di impronta cattolica, del generico progressismo antifascista quale rivoluzionaria ideologia anticonformista.

Nel 2009, nel celebre «discorso di Onna», Berlusconi – che dal 1994 aveva spesso schivato le celebrazioni – mostrava di avere trovato una efficace sintesi, un riuscito dosaggio degli argomenti e degli stereotipi sino ad allora emersi. Rendendo genericamente omaggio ad alcuni elementi qualificanti l’antifascismo istituzionale, in tale sintesi avrebbe nella realtà consolidato i fattori portanti della nuova versione antitotalitaria del 25 aprile che veniva avanti da un ventennio. Premetteva l’onore e l’impegno a «ricordare gli orrori dei totalitarismi e della soppressione della libertà», l’ammirazione e la riconoscenza per «quei patrioti che si sono battuti per il riscatto e la rinascita dell’Italia», per i giovani che sacrificarono la vita per la patria e per quelli dei paesi alleati caduti in Italia e senza i quali «il sacrificio dei nostri partigiani avrebbe rischiato di essere vano», e non ometteva certo il ricordo di «quelli che hanno combattuto dalla parte sbagliata sacrificando in buona fede la propria vita ai propri ideali e ad una causa già perduta». Riconosceva quindi la Resistenza, insieme al Risorgimento, come «uno dei valori fondanti della nostra nazione, un ritorno alla tradizione di libertà. E la libertà è un diritto che viene prima delle leggi e dello Stato, perché è un diritto naturale che ci appartiene in quanto esseri umani».

Ma rifiutava di farne un mito: «come per il Risorgimento, occorre ricordare anche le pagine oscure della guerra civile, anche quelle nelle quali chi combatteva dalla parte giusta ha commesso degli errori, si è assunto delle colpe». Ricordava i «tanti italiani di fedi diverse, di diverse culture, di diverse estrazioni [che] si unirono per sognare insieme e realizzare lo stesso grande sogno, quello della libertà», combattendo insieme e incanalando le differenze di partenza in un percorso che avrebbe condotto alla Costituzione, la quale, «benché frutto evidente di compromessi […] riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese. Non fu poco. Anzi, fu il miglior compromesso allora possibile».

Una sistemazione nella quale il fascismo scompariva come fenomeno storico reale, rimanendo solo come manifestazione di totalitarismo, quasi un meta-totalitarismo

[…] Si trattava di una sistemazione nella quale il fascismo scompariva come fenomeno storico reale, rimanendo solo come manifestazione di totalitarismo, quasi un meta-totalitarismo, cui accorpare il comunismo, pure non evocato esplicitamente. Mentre la Resistenza è ricondotta nella sua essenza alla lotta per la libertà e per la patria, come già nei democristiani degli anni Cinquanta.

[…] Dunque, una sistemazione semplificatoria, riduttrice – e falsificante – di qualsivoglia complessità storica, perciò considerata e proposta nella sua grigia banalità come accettabile da posizioni politiche pure non omogenee perché, sottratta a qualsiasi asperità «rivoluzionaria », fosse l’auspicio della giustizia sociale di gran parte dei combattenti del 1943-1945, o la rivoluzione democratica costantemente e coerentemente richiamata dal primo presidente del Consiglio dell’Italia riunificata nel 1945, Ferruccio Parri.

Con non molte – ma pure significative – variazioni sul tema, questa prospettiva è stata riproposta da Giorgia Meloni nel suo «primo» 25 aprile (avendo in precedenza preferito – come aveva annunciato su Facebook nel 2015 – andare a «correre pensando al 24 maggio, ricorrenza che rappresenta la memoria di una Nazione unita»). In una lettera pubblicata il 25 aprile 2023 dal «Corriere», ha precisato che quella data evoca la fine – della guerra, dell’occupazione, del ventennio (invero già chiuso il 25 luglio 1943), delle persecuzioni razziali, dei bombardamenti – e l’inizio della democrazia. Anche se peraltro non impedisce la continuazione della guerra civile, con esecuzioni sommarie anche a distanza di mesi, e l’avvio della persecuzione anti-italiana in Istria, Fiume e Dalmazia, con una seconda ondata di eccidi e l’esodo. Al 25 aprile viene fatto risalire anche il negoziato in sede costituente – che, scopriamo, condusse alla nascita di una democrazia liberale, non auspicata da tutte le componenti della Resistenza –, il quale portò alla redazione di un testo pensato per unire, non per dividere. Chi, per ovvie (alluse e non specificate) ragioni storiche, era rimasto escluso da quel negoziato, si sarebbe però impegnato a introdurre alla democrazia milioni di italiani, mentre chi si riteneva titolare della memoria storica della Resistenza avrebbe fatto ricorso alla categoria di «fascismo» per delegittimare ogni avversario politico, impiegandola – con le parole di Augusto Del Noce – come una «arma di esclusione di massa». «Stiamo dalla parte della libertà e della democrazia», ha scritto Meloni, «e questo è il modo migliore per attualizzare il messaggio del 25 aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la nostra libertà è tornata concretamente in pericolo». Citando poi l’incontro con un’anziana combattente delle Brigate Osoppo, Paola Del Din – la quale si dichiara patriota e non partigiana (termine che mai compare nella lettera di Meloni, se non in questo caso, come elemento di comparazione negativa) – conclude dedicando la giornata di festa a «tutti gli italiani che antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica».

L’azzurro 25 aprile del 2009 si è trasformato nel 25 aprile tricolore del 2023Meloni riprende e perfeziona – richiamandolo esplicitamente e adattandolo alla cornice politica del 2023 – il discorso tenuto a Onna nel 2009 da Berlusconi: come allora, si rinnova la proposta di fare del 25 aprile la festa della libertà, omettendo qualsiasi riferimento più che vago al fascismo (che per Meloni avrebbe il solo scopo di dividere), così da superare ogni lacerazione del passato e finalmente riunirci, tutti italiani, in una festa patriottica della libertà. Del resto, pochi giorni prima, la maggioranza aveva presentato alla Camera una mozione che chiedeva che le celebrazioni non fossero «occasione per attacchi agli avversari». Dalla scena della storia scompare il fascismo (non solo quello del ventennio, bensì e soprattutto quello nazificato della Rsi), ma scompaiono anche i soggetti protagonisti – i fascisti di Salò e i partigiani – della pur citata guerra civile, che resta solo in forma di eccidio sanguinoso (per mano di chi? Si suppone, dei comunisti), e delle tragedie del confine orientale (anche qui provocate dai comunisti, jugoslavi stavolta).

L’orizzonte è lo stesso proposto oltre dieci anni prima da Berlusconi, ma sapientemente integrato con i topoi e i temi della vulgata che fu dei fascisti sin dall’immediato dopoguerra. L’azzurro 25 aprile del 2009 si è trasformato nel 25 aprile tricolore del 2023.

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