«Se vogliamo ripristinare un rapporto di fiducia con i cittadini, è indispensabile togliere il velo del segreto ogni volta che sia possibile e giusto, specie su fatti tanto lontani nel tempo». Con questa dichiarazione la presidente della Camera Laura Boldrini accompagnava la notizia della desegretazione degli atti riguardanti la Commissione parlamentare di inchiesta che aveva indagato sul cosiddetto «armadio della vergogna».
Un armadio scoperto nel 1994 nella cancelleria della Corte militare di Appello presso la procura generale militare, nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma, con le ante rivolte verso il muro, chiuso da una catena, con al suo interno vari fascicoli riguardanti numerosi episodi delle stragi nazifasciste in Italia, tra cui Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine, Marzabotto.
Larga parte degli atti della Commissione che ha indagato su questo episodio sono ora consultabili, previa richiesta, sul sito della Camera.
Al di là dell’eco avuta per qualche giorno, la notizia merita una riflessione sia per l’alta sensibilità dei temi oggetto di studio delle Commissioni di inchiesta, sia per capire lo spessore di questo «velo del segreto» e quando, e a quali condizioni, sia «possibile e giusto» sollevarlo.
Una breve premessa costituzionale: le Commissioni parlamentari di inchiesta (mono o bicamerali) sono disciplinate dall’articolo 82 della Costituzione, secondo cui «ciascuna Camera può disporre inchieste su materie di pubblico interesse. A tale scopo nomina fra i propri componenti una commissione formata in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La commissione d’inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità giudiziaria». Le Commissioni di inchiesta si prestano dunque ad approfondire vicende rilevanti (appunto «materie di pubblico interesse») per il nostro Paese eppure oscure, con conseguente eventuale accertamento di responsabilità di tipo politico, su cui la maggioranza dei componenti le Camere esprima un’esigenza di approfondimento. Nell’ambito della XIV legislatura, questo consenso è stato espresso sull’«armadio della vergogna», come venne definito da uno dei giornalisti che per primo fece conoscere la vicenda, Franco Giustolisi.
Con la legge n. 107 del 15 maggio 2003, si diede quindi luogo alla «istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti». In considerazione della sensibilità dei temi trattati e del loro «pubblico interesse», ci si aspetterebbe che gli atti delle Commissioni in generale e di questa in particolare, riguardante peraltro eventi così lontani nel tempo, fossero pubblici e immediatamente conoscibili. In realtà l’operato delle Commissioni sfugge al principio di pubblicità che caratterizza i lavori parlamentari nel suo complesso e può essere segretato. Tale vincolo era inizialmente ispirato al segreto istruttorio, cui in parte si conformava l’operato delle Commissioni, ma successivamente è stato individuato e definito non da una legge o da un regolamento parlamentare ma da una sentenza della Corte costituzionale (n. 231/1975) come «segreto funzionale», espresso a tutela della funzionalità stessa delle commissioni e della autonomia costituzionale del Parlamento.
Nella prospettiva della Corte, però, tale segreto dev’essere strettamente rivolto a tutelare i lavori della Commissione, per cui è derogabile qualora non ne derivino conseguenze tali da impedire o intralciare gravemente l’assolvimento dei compiti delle commissioni. Viene dunque da pensare che, a lavori finiti, questa esigenza possa cessare automaticamente. L’opzione verso la pubblicità, che viene considerata comunque di valenza generale, o, viceversa, i vincoli di segretezza dei lavori sono in realtà affidati agli atti istitutivi delle commissioni di inchiesta e a singole deliberazioni sulla opportuna segretazione o meno di documenti e testimonianze.
A seguito della conclusione dei lavori della Commissione (in questo caso attiva dal 2003 al 2006), i vincoli di segretezza permangono secondo le modalità definite alla sua istituzione, nonché dalle apposite deliberazioni delle Commissioni e dal regolamento dell’Archivio storico della Camera di appartenenza del presidente dell’organo. Sono dunque le Camere a definire quando sia «giusto e possibile» sollevare la cortina di segretezza sui propri lavori.
Se nulla viene disposto, valgono i regolamenti che disciplinano l’accesso e la consultazione dei documenti conservati negli Archivi di Senato e Camera, e che prevedono per il primo una durata del segreto non superiore a quarant’anni dal versamento dei documenti, mentre per il secondo la questione è rimessa alle Commissioni che possono, indicandone la durata, apporre il segreto funzionale su documenti risultanti dai rispettivi lavori e comunque i documenti già segretati diventano consultabili dopo quarant’anni dal versamento (che avviene a conclusione dei lavori della Commissione). Questo limite previsto dal regolamento dell’Archivio della Camera può essere derogato da uno specifico potere riconosciuto al presidente della Camera per la declassificazione dei documenti già assoggettati a vincolo di segretezza, che può rimuovere il segreto funzionale o ridurne la durata.
Lo sforzo della presidente Boldrini sembra andare in questo senso, sia in relazione alla Commissione sull’armadio della vergogna sia per le precedenti «aperture» (si pensi agli atti relativi alla Commissione di inchiesta sul caso Alpi-Hrovatin, ad esempio).
Pur nella delicatezza delle questioni considerate e nella necessaria tutela di diritti di testimoni ascoltati durante le sedute e di terzi coinvolti, occorrerebbe però un passo ulteriore: nel rispetto dell’autonomia costituzionale del Parlamento andrebbe adottata una regola comune per tutti i lavori delle Commissioni che, ad esempio ispirandosi alla normativa nel frattempo adottata in materia di segreto di Stato e di informazioni classificate, richieda che tutti i lavori delle Commissioni, se segretati, siano di norma conoscibili e consultabili online alla fine dei lavori delle stesse e comunque, previa valutazione della necessaria tutela di altri diritti, decorsi non più di quindici anni dalla chiusura dei rispettivi lavori.
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