L’accordo sul programma nucleare iraniano raggiunto a Losanna, dopo una dozzina d’anni di trattative, può aprire al mondo nuovi scenari, fino a poco tempo fa impensabili. Seppure molto debba ancora essere definito nei dettagli – e molte saranno le occasioni per i “falchi” di ambo le parti per sabotare il percorso verso il Joint Comprehensive Plan of Action che dovrà essere definito a giugno – e solo il tempo potrà confermare se davvero si è trattato di un accordo “storico” e quali opportunità può offrire su (tanti) altri fronti caldi. Ma, in particolare in questo caso specifico, un accordo è sempre meglio di nessun accordo. È un primo passo che consente di “dare una chance alla pace”, con vigile e lungimirante perseveranza.
È scontato – o almeno dovrebbe esserlo – che in un accordo di tale portata nessuna delle parti possa pensare di umiliare l’altra e che, nel contempo, entrambe debbano poter esibire risultati positivi su cui costruire i passi successivi: limitazioni, controlli e divieti da un lato, sviluppo del nucleare civile e graduale riduzione delle sanzioni dall’altro. Per noi cittadini europei di positivo e incoraggiante c’è anche il ruolo giocato nella trattativa dall’Unione europea. Un plauso particolare e unanime per questo successo è andato all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Federica Mogherini, che ha saputo svolgere una funzione fondamentale di “facilitatore” e di raccordo fra le parti, anche nei momenti di maggiore tensione.
Non è più tempo – e non da oggi – di attardarsi in miopi letture “nazionali” sul peso e il ruolo delle cariche europee. Ed è apprezzabile (specie per un “Centro Studi sul Federalismo” come quello da cui scrivo) che Mogherini, già nel suo saluto alla Camera dei Deputati, il 30 ottobre scorso, abbia espresso la volontà di ricoprire l’incarico attuale “forte dell’insegnamento della tradizione federalista”. Chi occupa posizioni di vertice nelle istituzioni dell’Unione europea ha quale compito di costruire e di tradurre in azioni l’“interesse europeo”. Che certo non è un dato di natura auto-evidente, ma un processo sempre in divenire, una conquista difficile e ancora troppo macchinosa da raggiungere. Al quale risultati come quello di Losanna possono fornire un carburante importante, oltre che preziose indicazioni di metodo.
Dal 2008 ci confrontiamo con una crisi economica profondissima che ha costretto l’Ue, e in particolare il nucleo dell’eurozona, a ripiegarsi su se stessa, sulla dimensione interna, con interventi emergenziali per salvare l’euro, architrave della costruzione europea e di qualsiasi progetto di Unione federale. Oggi che la crisi economica è tutt’altro che risolta, ma almeno in parte sotto controllo – con una quantità impressionante di decisioni e nuovi strumenti introdotti in pochi anni –, è la dimensione esterna il nuovo fronte su cui l’Ue gioca la propria esistenza. È il tema della “sicurezza”, sempre più multidimensionale e interdipendente, di fronte al moltiplicarsi di problemi e rischi (militari, terroristici, energetici, ambientali, sociali), che richiede un salto di qualità.
Va sempre ricordato che, in base ai trattati in vigore, la politica estera e di sicurezza comune (Pesc) “è definita e attuata dal Consiglio europeo e dal Consiglio che deliberano all’unanimità”. L’Europa che ha quale motto “unita nella diversità”, nella Pesc non ha faticato a mostrare la propria diversità. Più difficile è stato, spesso, identificare l’unità. Ma, come ha ricordato Federica Mogherini alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, nel febbraio scorso, “la nostra forza viene da un mix bilanciato di diversità e di unità”.
Non vanno sottovalutati i risultati del comprehensive approach elaborato in questi anni dall’Unione, per contribuire alla gestione di molte crisi, con un mix d’interventi civili e militari, di soft e di hard power. Ma quando si arriva – sia pure in ultima istanza – al secondo emergono tutti i limiti di un’Europa con 28 eserciti nazionali, falcidiati da inevitabili tagli di bilancio. Un’Europa ancora troppo timida nel compiere passi che vadano oltre il “pooling and sharing” e muovano verso un’Unione della difesa (anche quale efficace pilastro europeo della partnership transatlantica), anzitutto attraverso lo strumento della “cooperazione strutturata permanente”.
Tante volte si è chiesto che l’Europa in politica estera parli “con una voce sola”. Ma rischia di essere un’invocazione retorica se non si definiscono metodi, obiettivi, strumenti e azioni conseguenti affinché non sia una voce afona o incomprensibile. Un primo importante passo fu compiuto con il documento “Un’Europa sicura in un mondo migliore”, che definì una “strategia europea in materia di sicurezza”, predisposto da Javier Solana, quale primo Alto rappresentante (figura introdotta con il Trattato di Amsterdam), e adottato dal Consiglio europeo nel dicembre 2003. Un documento rivisto – ma confermato nelle sue linee di fondo – nel dicembre 2008, con una relazione dal titolo, più dubbioso, “Garantire sicurezza in un mondo in piena evoluzione”.
Molto è cambiato, e spesso non in meglio, da allora. È quindi di grande rilievo che Mogherini abbia deciso di lanciare un processo – aperto a competenze e soggetti istituzionali, accademici, dei think tank e dei media – di revisione e aggiornamento della strategia europea di sicurezza, per adeguarla alle tante nuove sfide e minacce che dobbiamo fronteggiare. Come da lei indicato alla Conferenza di Monaco, “abbiamo bisogno di un senso di direzione”. Ci occorre la capacità di compiere scelte e di darci delle priorità. Ci occorre un senso di come possiamo mobilitare al meglio i nostri strumenti al servizio dei nostri obiettivi e in partnership con chi. “Ci occorre una strategia”. I primi risultati saranno presentati già al Consiglio europeo del giugno prossimo, che sarà incentrato sui temi della difesa.
Possiamo quindi dire che, nel ruolo di Alto rappresentante, Javier Solana ha posto le prime, indispensabili basi strategiche; la fin troppo criticata Catherine Ashton ha lavorato alla costruzione della poderosa “macchina istituzionale” introdotta con il Trattato di Lisbona (in particolare con la nascita del Servizio europeo di azione esterna); a Federica Mogherini tocca il compito difficile, ma anche esaltante, di lavorare alla costruzione di una politica estera e di sicurezza davvero comune. È questa la prospettiva con cui guardare al quinquennio della nuova legislatura europea, che già si avvia a compiere il primo anno. Ben sapendo che le sfide e le minacce che abbiamo intorno a noi non consentiranno (ulteriori) ritardi o tentennamenti.
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