Il 10 marzo scorso il prefetto di Milano, Renato Saccone, ha inviato una circolare ai comuni del territorio di sua competenza per precisare che, in Italia, non è consentita «la registrazione nell’atto di nascita dei bambini nati da coppie dello stesso sesso». L’iniziativa è indirizzata in particolare a Giuseppe Sala, sindaco del capoluogo lombardo, il quale, a partire dalla scorsa estate, ha iniziato a registrare nello stato civile le figlie e i figli di unioni omogenitoriali.

La registrazione è un passaggio fondamentale dal punto di vista legale e materiale. In Italia, la trascrizione dall’estero o l’iscrizione di un atto di nascita costituiscono il presupposto per acquisire la capacità giuridica: in assenza di questo passaggio una persona, pur essendo nata, non può diventare titolare dei diritti civili – in particolare, al nome e all’identità personale – che costituiscono la base del suo rapporto con un ordinamento giuridico. In altre parole, alla sua esistenza materiale non corrisponde un’esistenza legale. La registrazione nello stato civile è poi il presupposto per l’iscrizione anagrafica, che dovrebbe avvenire nel comune di residenza dei genitori. La mancata formazione di un atto di nascita equivale allora alla negazione non soltanto dell’esistenza legale, ma anche di quella amministrativa, la quale costituisce il presupposto per l’esercizio di numerosi diritti, in particolare politici e sociali.

La scelta della prefettura di Milano, che sembra trovare una forte sponda, se non addirittura un input, nel governo centrale – e in particolare nel ministero dell’Interno e in quello della Famiglia – deriva dall’avversione per le forme famigliari e procreative alternative a quelle «tradizionali», vale a dire eterosessuali e «naturali». Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, atti che sanciscono nascite avvenute secondo pratiche considerate illegali ai sensi della legge 40/2004 – in particolare, la cosiddetta «gestazione per altri» – sono considerati contrari all’ordine pubblico in quanto andrebbero a intaccare il diritto alla vita privata e familiare del bambino, e sono quindi dichiarati inammissibili.

A partire da queste posizioni, viene spontaneo chiedersi quale sia il significato della nozione giuridica richiamata. Nel campo del diritto, infatti, il concetto di ordine pubblico presenta due accezioni diverse. La prima è di tipo ideale, ed equivale all’assenza di conflitto tra princìpi o valori, mentre la seconda è di tipo materiale, e corrisponde alla repressione di fatti e azioni che minacciano il regolare svolgimento della vita quotidiana. Garantire l’ordine pubblico, di conseguenza, vuol dire nel primo caso punire forme espressive incompatibili con le idee dominanti in una data società, e nel secondo caso reprimere atti che mettono a rischio la sicurezza effettiva delle persone, impedendone ad esempio la libertà di circolazione o minacciandone le proprietà. La concezione ideale è considerata propria di uno Stato etico, ossia di un regime politico che si fa portatore di specifici princìpi a discapito di altri orientamenti normativi, mentre quella materiale è ricondotta a uno Stato liberale, neutrale sul piano dei valori, in cui le autorità pubbliche si fanno semplicemente garanti di proteggere la sfera personale dei singoli da interferenze concrete.

Risulta difficile comprendere quali beni e quali libertà concrete l’atto di riconoscere l’esistenza di un certo tipo di unione familiare vada a minacciare. L’obiettivo che il governo tenta di raggiungere, piuttosto, sembra avere una natura politica

L’Italia del 2023, almeno sulla carta, è uno Stato laico. Di conseguenza, l’ordine pubblico che le sue istituzioni sono chiamate a tutelare – e che sarebbe «minacciato» dalle modalità procreative considerate non conformi a cui fanno ricorso le famiglie arcobaleno – dovrebbe essere materiale, non ideale. Eppure, la questione sollevata dall’intervento della prefettura sembra essere di tipo morale. Risulta infatti difficile comprendere quali beni e quali libertà concrete l’atto di riconoscere l’esistenza di un certo tipo di unione familiare vada a minacciare. L’obiettivo che il governo e la sua diramazione periferica tentano di raggiungere, piuttosto, sembra avere una natura politica: riguarda la composizione legittima della società, che gli strumenti demografici – in questo caso, lo stato civile e l’anagrafe – vanno a sancire.

Nel caso delle coppie omogenitoriali, la posta in gioco del conflitto è la presa d’atto della filiazione di entrambi i genitori. Dalla prospettiva del governo e delle prefetture, il genitore non biologico, denominato «intenzionale», deve essere escluso dalla registrazione. Al punto che, se nessuno dei due membri della coppia ha fornito il proprio materiale genetico – come può accadere nel caso di nascite avvenute all’estero tramite la tecnica della gestazione per altri –, a essere a rischio è la stessa trascrizione dell’atto di nascita, subordinata all’adozione della bimba o del bimbo da parte della coppia. In questi casi, il riconoscimento dell’esistenza legale e amministrativa da parte delle autorità italiane non è messo direttamente in discussione ma è interpretato in modo discrezionale: l’assenza di un legame di tipo biologico esclude i genitori «intenzionali» dallo status di genitori «di diritto».

Dalla prospettiva del governo e delle prefetture, il genitore non biologico deve essere escluso dalla registrazione. Al punto che, se nessuno dei due membri della coppia ha fornito il proprio materiale genetico, a essere a rischio è la stessa trascrizione dell’atto di nascita

L’uso politico dei registri anagrafici e di stato civile non è un tema nuovo. Nel corso della storia italiana, gli scontri politici sulla popolazione – per meglio dire, sul suo controllo e sulla sua costruzione – sono la regola più che l’eccezione. L’anagrafe, in particolare, è sistematicamente al centro di dinamiche conflittuali. Introdotta all’indomani dell’Unità d'Italia in modo da costituire una sorta di registro «diuturno e perpetuo» degli individui residenti in ogni singolo comune del territorio italiano, appare come uno strumento tecnico tramite cui ottenere una semplice rappresentazione della popolazione. Eppure, a dispetto delle apparenze, è un dispositivo performativo, la cui azione produce effetti profondi sulle vite di individui e famiglie.

La logica su cui l’anagrafe si basa è in teoria piuttosto semplice, e si traduce in istruzioni precise per le amministrazioni locali – chiamate a verificare chi è presente nel proprio territorio – e in un diritto/dovere per le persone, tenute a dichiarare la propria dimora abituale o, in sua assenza, il proprio domicilio. In materia anagrafica, i comuni non dispongono di alcun potere: il sindaco, agendo quale ufficiale di governo, deve limitarsi a eseguire le regole stabilite a livello centrale. Eppure, nel corso dell’intera storia italiana, le amministrazioni locali hanno ripetutamente violato la normativa statale, inserendo requisiti aggiuntivi o interpretando in maniera restrittiva quelli esistenti. In questo modo, la registrazione anagrafica, da strumento di monitoraggio statistico-amministrativo del territorio, diventa un dispositivo di selezione della componente «meritevole» e «legittima» della popolazione.

Negli ultimi quindici anni, peraltro, un’interpretazione selettiva è stata fatta propria anche da alcuni governi centrali, i quali, con appositi interventi normativi – il Pacchetto sicurezza di Maroni del 2009, Il Piano casa Renzi-Lupi del 2014 e il Decreto Salvini del 2018 (poi cassato dalla Corte costituzionale) –, hanno in parte riscritto, in senso restrittivo, le regole del gioco, introducendo requisiti ulteriori per l’iscrizione.

Tutti questi interventi vanno a toccare uno strumento che, al di là delle sue apparenze, presenta caratteristiche prescrittive e disciplinanti. Le persone vivono e si muovono in un ambiente perimetrato dall’anagrafe e dalle sue regole, vale a dire delimitato in maniera strutturale dal linguaggio e dalle categorie giuridico-amministrative con cui gli attori pubblici pensano e circoscrivono i modi legittimi di abitare lo spazio e di circolare al suo interno. Le dichiarazioni anagrafiche rese agli uffici comunali, se dalla prospettiva degli attori pubblici equivalgono alla semplice comunicazione di uno stato di fatto, dal punto di vista di chi le presenta sono forme vincolanti di auto collocazione all’interno di categorie definite e prestabilite dall’esterno, che non danno conto in modo neutrale del rapporto materiale con il territorio ma, piuttosto, lo costringono entro confini rigidi.

Quando la funzione dell’anagrafe è distorta in senso selettivo, ossia quando i requisiti per l’iscrizione vengono impiegati per scegliere chi può far parte o meno di una collettività, la performatività dello strumento si fa ancora più evidente e pervasiva. La posta in gioco politica emerge in tutta la sua chiarezza. La vicenda della registrazione delle bambine e dei bambini nati da genitori dello stesso sesso assume allora contorni ancora più netti e inquietanti. A essere in gioco non ci sono banali atti giuridici, ma la forma stessa della collettività in cui viviamo. Dalla prospettiva di alcuni attori politici e istituzionali, un certo modo di fare famiglia non è ammesso e, dunque, non deve essere riconosciuto dalla legge: non potendolo cancellare materialmente lo si rende invisibile giuridicamente.